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Comodin: documentarista di genere

I TEMPI FELICI VERRANNO PRESTO è un film enigmatico dalla struttura non lineare che crea un rapporto articolato col pubblico: “Mi piace smuovere il pubblico: quando si vede un film è perché impariamo a guardare. La sorpresa crea reazioni violente in ognuno di noi. Ogni spettatore per me è intelligente e un film se costruito in questo modo può dare delle cose che servono poi a riflettere.” E' un rapporto conflittuale, ma forse necessario quello che Comodin crea con le persone.

 

Una struttura composita partorita quando il regista friulano ha voluto portare sullo schermo i racconti di un amico di suo nonno, Nino Selva. E' il '41 quando Nino a vent'anni parte per la Russia a combattere una guerra che non gli

apparteneva. Rimasto là per diversi anni è tornato in Italia solo nel 1946. “Ciò che mi ha colpito della sua storia è che non era come nei film di guerra. Lui si era divertito nonostante i momenti duri, ha vissuto avventure bellissime. E' scappato come disertore, si è nascosto, ha trovato lavoro là imparando il russo, si è innamorato per poi fuggire di nuovo per tornare a casa, arrendersi e passare un anno in un campo di concentramento militare. Quando fu di nuovo in Friuli il suo animo era nostalgico a causa del fatto che non solo i suoi anni più belli li aveva passati in guerra, ma gli mancava quel senso di avventura che aveva provato.”

 

La guerra nel film di Comodin infatti è vista da uno scorcio particolare, lontano dai soliti cliché bellici. Si respira un'aria diversa, che quasi verte sulla dimensione onirica, nata probabilmente dal fatto che il regista si è interrogato sul punto di vista dei familiari che davano per morto Nino Selva. Nessuno lo aspettava, poi un giorno è arrivato dal nulla. “Nino è morto in senso onirico, perché mi piaceva quest'idea dell'immortalità delle persone, anche l'incontro tra una persona che è morta (il ragazzo) e una che sta morire (Arianna) sapevo che avrebbe creato un qualcosa”. La natura nel film è il luogo in cui ci si perde per ritrovare se stessi. Una natura che per Comodin è simboleggiata dall'arrivo del lupo: il ritorno del selvatico. “Il lupo è un elemento (come altri nel film) che si può ritrovare nella letteratura mondiale. E' un animale emblema del mondo selvaggio che alimenta l'immaginario delle persone: nella cronaca locale crea molti problemi ai pastori.”

 

Luoghi quindi in cui ancora oggi il lupo domina minacciando l'uomo nella sua più fragile esistenza. Posti che il regista ha scelto per ambientare il film perché pregni di questa atmosfera da fiaba nera, ma non solo. “Ho voluto filmare in un luogo dove sono accadute le cose: a Porzus il fratello partigiano di Pasolini è stato ucciso da altri partigiani. Quando si cammina in posti naturali come questo si sentono delle presenze che parlano delle storie che non si vedono”. Per il regista infatti è importante far vedere il passaggio di quelle persone che invece non hanno avuto l'occasione di farsi conoscere, anime morte per ingiustizia che permangono nell'aria, nelle natura stessa delle cose. “Mi interessava dare importanza alle persone che scompaiono e di cui nessuno parla mai, persone con una certa innocenza che non potranno mai scrivere come sono andate le cose: la storia viene scritta da chi sopravvive”.

 

Nel film non vi è una verità assoluta così come la storia assume una libera interpretazione dei fatti. Lo spettatore segue i personaggi che si intersecano, le relazioni che tra loro si formano: essi sono il fulcro del film di cui già si accenna nel titolo I tempi felici verranno presto dove pur sentendo un briciolo di speranza, si è coscienti che dietro l'angolo vi è il dolore. E' un film infatti dove la felicità è amara, ma resta il coraggio dei personaggi che sono in rivolta contro la vita: “vogliono scappare dalla vita stessa, dalla società che gli impone determinate cose, dal destino che per esempio ha deciso per la ragazza malata. Sanno di essere morti, ma non lo accettano e questo per me è un po' il senso del film e della vita, questa lotta interiore”.

 

Le luci naturali, gli attori non professionisti, i lunghi piani sequenza, sono tutti elementi che derivano dal fascino del documentario che interessa a Comodin. “Seguo delle persone in un determinato contesto e lascio fare, non do troppe indicazione, metto le basi per una situazione e il resto lo fanno loro e questo per esempio mi ha creato problemi con l'attrice professionista perché lei non era abituata.”

Infatti se pur questa sua seconda opera si può definire di finzione, il linguaggio risente molto dell'impronta realista, come nel caso dell'opera prima. “Con L'ESTATE DI GIACOMO mi sono accorto che il documentario se spinto fino in fondo può creare una storia a posteriori, una finzione atipica che esce dalla realtà, e questo è il tipo di cinema che mi piace, dove c'è un processo continuo che dopo le riprese passa per il montaggio del suono, la color, il mix. E' un lavoro lungo fatto di strati.”

 

Per il regista la finzione e il documentario sono la stessa cosa e c'è ancora molto da scoprire, infatti il suo prossimo progetto verterà sul genere documentaristico mischiato al poliziesco. Nonostante la storia sia ancora da delineare il film sarà ambientato con originalità in un giardino pieno di bambù in Friuli Venezia Giulia.

 

 

 

Von Chanelly

Manifesto 0, 3 dicembre 2016

 

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