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Il Sogno della Farfalla

Produzione: It./Fr./Svizzera 1994

Genere: Drammatico
Durata: 100
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Regia: Marco Bellocchio

Soggetto: Marco Bellocchio

Sceneggiatura: Massimo Fagioli

Produttore: Piergiorgio Bellocchio

Fotografia: Giorgos Arvanitis
Scenografia: Amedeo Fago

Costumi: Lia Francesca Morandini
Trucco: -

Effetti: -

Montaggio: Francesca Calvelli

Musiche: Carlo Crivelli

Cast: Bibi Andersson (la madre), Henry Arnold (Carlo), Thierry Blanc (Massimo), Nathalie Boutefeu (Anna), Roberto Herlitzka (il padre), Simona Cavallari (la ragazza), Anita Laurenzi (la prima vecchia)

 

Premi:

 

Fu presentato nella sezione Un Certain Regard del 47º Festival di Cannes.

 

 

Trama:

Massimo è un giovane e promettente attore ma particolare, a partire dall'età di 14 anni infatti ha smesso di parlare. Usa la voce solo quando recita sul palcoscenico. Viene notato da un famoso regista che vorrebbe scritturarlo ma dato il suo silenzio questi si rivolge al padre che gli spiega la ragione del suo mutismo: una delusione amorosa. A questo punto il regista è ancora più interessato a Massimo ma il suo nuovo progetto è quello di creare uno spettacolo dove il ragazzo interpreta se stesso. La madre del ragazzo sia pure recalcitrante accetta di scrivere il testo di questo spettacolo e Massimo stesso considera la parte un ruolo come un altro e non una esperienza autobiografica. Nello spettacolo tutti i personaggi coinvolti cercano di far parlare il ragazzo, ma un terribile terremoto colpisce la compagnia che si trova a Creta assieme alla famiglia di Massimo. Fortunatamente restano tutti illesi, ma questo potrebbe essere un nuovo inizio.

 

Recensione: 

Partiamo dal finale che racchiude tutto quello che Marco Bellocchio con IL SOGNO DELLA FARFALLA voleva esprimere. La madre, sola, con lo sguardo perso nel vuoto, poi le parole pronunciate dalla sua bocca, un soliloquio teatrale-letterario, e mentre la macchina da presa va all'indietro, gli altri personaggi: chi seduto, chi disteso, immobili, fermi, in silenzio. In sottofondo solo il rumore delle onde del mare, e un insieme di sabbia bianca e sassi.

 

Il regista sembra rifarsi al cinema russo di Tarkovskij o Dovzenko: il ritmo lento, i pochi dialoghi, le inquadrature eccessivamente lunghe, i silenzi, le pause o il soffermarsi filosofico dalla durata prolungata più del necessario, la colonna sonora praticamente inesistente, rara, ci sono più sincronizzazioni di suoni che inserimenti di un possibile commento musicale, con l'aggiunta di una scelta stilistica che richiama il cinema degli anni '10.

 

Il regista tramite gli attori in modo paterno si prende gioco dello spettatore. La maggior parte delle scene inizia con un campo totale che riprende il gesto (si presume quotidiano) di uno dei personaggi inquadrati mentre è in atto una discussione su un qualcosa che si ricollega comunque al tema principale, discussioni che sembrano essere uscite da un qualche romanzo, o da una pièce teatrale, poi tramite l'uso di un montaggio accurato fa vedere a chi guarda che in realtà attorno a loro c'è la presenza di altri personaggi che finora erano stati zitti, non s'erano visti, nascosti nel buio. Un buio che al contrario si fa sentire e che va a consolidare l'effetto di claustrofobia che si ha con questo film. Una fotografia buia che usa solo luci naturali, interne al film e che non rovina affatto la composizione scenica. Gli ambienti

contrariamente appaiono famigliari, non solo grazie alla marcata rappresentazione di gesti quotidiani che vengono rappresentati all'interno di essi, ma il ruolo di archetipo che essi assumono, come l'ambiente della cucina che diventa il luogo del ritorno dopo il viaggio o il sito archeologico che è il luogo dove si scava e che si ricollega direttamente alla ricerca interna del protagonista e non per niente il viaggio si conclude proprio li. Per non dimenticare che l'immagine della quotidianità rispecchia la difficoltà dei genitori di affrontare la diversità.

 

Il rapporto tra genitore e figlio è un tema molto caro a Bellocchio, ma il tema principale non è la situazione familiare di conflitto, ma bensì dedica particolare attenzione al raccontare una storia che tramite la forza visiva regala un lungo pensiero sul silenzio psicanalitico e sull'attenzione che dobbiamo porre all'ascolto.

Qui i genitori non capiscono la scelta del figlio di rimanere in silenzio, muto, ed egli, incompreso, non risponde al dibattito genitoriale e lo scontro sembra perdersi nel vuoto. Un figlio che, come descrive il titolo del film, è una farfalla, che durante la metamorfosi nel bozzolo ha elaborato una diversa concezione di vita che lo ha travolto emotivamente tanto da fargli decidere che il silenzio, ora come ora, è la strada giusta da percorrere. Ma la farfalla non è veramente libera di volare e decide di strapparsi con tutte le sue forze le catene di dosso, scappando in una fuga d'amore che a momenti pare stabile e in altri sembra essere solo un impiego temporaneo. L'unica che sembra

veramente capirlo è la vecchietta solitaria che contrariamente a tutti gli altri lei è la sola a non volerlo far parlare a tutti i costi. Una vecchietta che diventa anche chiave contrapposta al personaggio della nonna simbolo che rappresenta il mondo passato delle favole e dell'incombente realtà che spezza il mondo magico delle storielle che lei stessa raccontava. Con la vecchietta avviene l'incontro decisivo che farà ritornare il nostro protagonista a casa, chiudendo il cerchio della ricerca dell'affermazione esistenziale. Il negativismo, il cinismo, il surrealismo sono l'insieme di un discorso razionale che sottolinea la contrapposizione emotiva.

 

 

 

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