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Giovanni Bufalini

Giovanni Bufalini nasce ad Orvieto nel 1973.

E' stato docente accademico, ed è attualmente il coordinatore e il docente di regia della Scuola Romana di Fotografia e Cinema. Vive a Roma, dove ha concluso nel 2004 il corso Rai Script per sceneggiatori di cinema e fiction. Lavora tra Roma e Milano dove si è diplomato nel 2003 al Master della Civica Scuola di Cinema Televisione e Nuovi Media. Ha collaborato alla realizzazione di corto e lungometraggi, documentari, spot e videoclip che hanno ricevuto premi e menzioni speciali in diversi festival...continua a leggere
 


SITO UFFICIALE: www.giovannibufalini.com


 

MANIFESTO 0: Tu sei regista ma anche sceneggiatore, però volevo soffermarmi un attimo sul fatto di essere docente. Uno dei problemi del sistema cinematografico italiano è il tipo di insegnamento che c'è nelle diverse Accademie e Università di cinema in Italia. Si è sentito spesso criticare i metodi di insegnamento, nei quali manca la parte pratica e gli studi sembrano essere troppo superficiali a differenza di altre scuole cinematografiche estere. Tu confermi questa critica oppure hai qualcosa da ridire?


GIOVANNI BUFALINI: Per mia abitudine non critico volentieri il lavoro degli altri, ma posso parlarti del mio.
Alla Scuola Romana di Fotografia e Cinema, di cui sono coordinatore didattico e docente di regia, nel Master di Cinematografia che dura un intenso anno didattico i nostri allievi imparano il mestiere facendolo. Producono diversi audiovisivi, tra corti, spot, videoclip e documentari, usando macchine da presa differenti. Li facciamo ruotare nei vari ruoli da caporeparto delle corrispettive materie di studio e lavorano sotto la supervisione di noi docenti, dall'inizio alla fine delle intere produzioni. Nel frattempo, durante tutto il periodo formativo, li portiamo anche a lavorare sui nostri set professionali, facendoli firmare come assistenti dei vari reparti. Questo credo rappresenti una rarità nel panorama della formazione privata italiana. E i risultati si vedono, visto che le produzioni della scuola vincono anche premi nei vari festival di settore.

M0: Una delle cose che ritieni più importanti e che insegni ai tuoi allievi a livello cinematografico qual'è?

GB: Metodo e disciplina. Perché l'indipendenza non va mai confusa con l'amatorialità. Nel mio modo di lavorare, che cerco di insegnare a tutti loro, non si prescinde mai dalla preparazione della regia sulla carta. La mia formazione da disegnatore e sceneggiatore mi induce a lavorare sempre con lo storyboard di partenza.

M0: Passando ora alla parte registica, hai lavorato con connazionali ma anche con persone straniere. Questo ti ha dato modo di vedere il cinema sotto un altro punto di vista o ti è sembrato che a livello lavorativo la nazionalità non fa differenza?

GB: Noi italiani siamo più elastici degli americani, abituati come siamo ad improvvisare adattarci e raggiungere lo scopo (cit.). Ma loro sono più liberi, perché decenni di povertà di risorse ci hanno tolto l'abitudine di pensare in grande quando si scrive.

M0: Nel tuo cortometraggio horror BEWARE OF THE DOG hai usato il Super16 millimetri. Come mai questa scelta? Mi pare che non sia la prima volta che hai usato un 16 mm o un 8 mm.

GB: Io comincio ad avere una certa età, faccio parte dell'ultima generazione che ha iniziato a lavorare in pellicola. Probabilmente. Ho usato spesso la Super 16, a volte la Super 8 e ho collaborato alla realizzazione di prodotti in 35 mm. Era la scelta giusta per il lavoro promozionale su Beware e per altre delle mie produzioni. Credo sia inutile cercare di riprodurre in digitale l'effetto pellicola. Le nuove tecnologie che stanno soppiantando le vecchie vanno esplorate per le loro potenzialità specifiche.

M0: Cinecittà sta cercando di diventare Bene Comune. Tu cosa ne pensi a proposito? Credi che Cinecittà debba smettere di essere privata?

GB: Non conosco bene la situazione dall'interno per poter formulare un giudizio in merito.
Mi è capitato di rado di lavorarci ma la mia sensazione è che gli errori gestionali del passato abbiano fatto fuggire le grandi produzioni internazionali che rendevano Cinecittà uno dei templi del cinema mondiale. Preferendo di utilizzarla prevalentemente per le produzioni televisive nazionali. Forse è la naturale evoluzione delle cose, ma mette tristezza.

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