top of page

Gli amici del bar Margherita

Produzione: It. 2008

Genere: Commedia
Durata: 90' 

Regia: Pupi Avati

Soggetto: Pupi Avati

Sceneggiatura: Pupi Avati

Produttore: Antonio Avati

Fotografia: Pasquale Rachini
Scenografia: Giulano Pannuti

Costumi: Steno Tonelli
Trucco: -

Effetti: -

Montaggio: Amedeo Salfa

Musiche: Lucio Dalla, Bruno Mariani e Roberto Costa

Cast: Diego Abatantuono (Al), Pierpaolo Zizzi (Taddeo), Neri Marcorè (Bep), Laura Chiatti (Marcella), Fabio De Luigi (Gian), Luigi Lo Cascio (Manuelo), Claudio Botosso (Zanchi)

 

Premi:

 

-

 

 

Trama:

Gli amici del Bar Margherita è una commedia basata sul ricordo, dall’andamento semplice, scorrevole, come

non se ne vedeva da tempo, con una partecipazione a più voci di personaggi realistici, in una città, Bologna,

che appare ricca di una vitalità maliziosa e leggera tra zone strabocchevoli di un ozio di gruppo, ben radicato,

animato di allegria e spensieratezza.

 

 

 

Recensione: 

Pupi Avati, conferma la gradevolezza narrativa del suo stile e la capacità nel mettere in scena personaggi con

una trasfigurazione appena abbozzata, misurata e sobria, vicino al realismo cinematograficamente più noto,

senza tralasciare quelle forme più passionali che opportunamente alleggerite dall’ironia e dall’umorismo

rendono i suoi film ludici e disimpegnati.

Avati in questo film dimostra tutto il suo ingegno nel saper immergere i suoi racconti in bagni psicologici

particolari, dai colori leggeri e gioiosi, densi nello stesso tempo di un significato profondo richiamato alla mente da alcuni dettagli scenici di grande acume e composizione.

 

GLI AMICI DEL BAR MARGHERITA ha un intonazione un po’ felliniana, tanto è saporito di situazioni lampo sempre ben ricercate, selezionate con attenzione e molto riguardo all’effetto spettacolare, sarcastico. E’ un film paragonabile per certi aspetti ad Amarcord soprattutto per le riuscitissime atmosfere scherzose e le divertenti trasgressioni a tutte le rigide regole morali dell’epoca.

 

GLI AMICI DEL BAR MARGHERITA potrebbe essere visto, ponendoci da una certa angolazione visiva, un po’ più legata alla storia del cinema, come un atto di ossequio al grande regista italiano degli anni ’60, quello degli ultimi film.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’aspetto nuovo del regista bolognese, quello che più è da sottolineare in questa non facile opera, riguarda la messa in campo di parti della sua giovinezza, quelle più significative, segnate da un po’ di sofferenza, caratterizzate soprattutto da alcune difficoltà di relazione con gli adulti, in un epoca indubbiamente dal clima autoritario, in cui la distinzione tra adolescenti e adulti era del tutto fuori discussione, perché era ritenuta necessaria alla piena funzionalità dei ruoli maschilisti allora dominanti; tutto ciò creava conflitti, a volte molto contorti, degni di attenzione da parte dei migliori psicanalisti di oggi.

 

Le separazioni comunicative tra i due mondi, adolescenti e adulti, erano talmente istituzionalizzate, che era divenuta ovvia l’esclusione dei giovani dai Bar, dalle balere, dai giochi di società, perché in quei luoghi gli adulti realizzavano i propri desideri più mondani legati al vizio e alla trasgressione o le passioni più forti che una vita di società fatta anche di prevaricazioni, in genere suscitava.

Si voleva in sostanza che gli adolescenti, prima di accedere ai piaceri degli adulti, facessero un tirocinio servile, manifestando spirito gregario, umiltà, spersonalizzazione di fronte ai grandi. Non era previsto alcun riconoscimento della personalità adolescenziale, quella più viva, o dei desideri più naturali del giovane, se non in un apprendistato particolare con i grandi, fatto di fedeltà, devozione, impegno, svolto in funzione di un maturo apprendimento delle regole di vita più importanti, che aveva sempre per base la subordinazione dell’adolescente alle idee guida di un altro.

 

 

 

 

Avati, non più giovanissimo, incalzato sempre più dai ricordi della sua vita, che

si piegano ormai in forme ossessive compulsive, annunciandogli la necessità di

un lavoro psichico di elaborazione della memoria, volge lo sguardo a ciò che

con più intensità ha vissuto, come se volesse coltivare, ma anche nello stesso

tempo sciogliere, qualcosa del suo passato, forse nella non vana speranza di

liberare energie psichiche per nuove esperienze artistiche.

 

E’ un passato quello di Avati ricco di emozioni, di trepidazioni ancora accese,

che il contrasto con un presente molto diverso, involgarito dall’utilitarismo

esasperato dei media, spinge al racconto.

 

Avati anche scrittore letterario, senza infamia ne lode, usa in questo film strumenti letterari a lui ormai familiari, utilizzando i personaggi in un gioco di sponda tra attualità e virtualità, presente e ricordo, tanto caro alla teoria del cristallo cinematografico di Gilles Deleuze (vedi il libro Immagine- tempo) che fornisce tutt’oggi la chiave per la costruzione di diverse commedie filmiche.

 

Il regista bolognese con questo film si mette in gioco sul piano un po’ più autoanalitico, aprendosi allo spettatore come mai era accaduto prima, senza indugi o falsi pudori, lontano da ogni stucchevole compostezza, faticando secondo le tradizionali regole della psicanalisi a trovare il ritmo giusto tra verità dei fatti, in parte trasfigurati, come insegna la logica freudiana sui ricordi di copertura, e rispetto di una realtà passata nella sua forma più obiettiva avvalendosi di studi storici; tra l’impegno culturale legato ad un’interpretazione di sé coerente, sensata e la necessità di trasmettere nel film, qualcosa che per forza di cose deve stare più sul versante del diletto che della verità storica assoluta, del divertimento anziché della seriosa raffigurazione di un’epoca del passato che è ormai impossibile ricostruire in tutta la sua complessità.

 

 

 

 

Avati ritorna indietro fino al 1954, qualche anno prima dell’avvento della televisione, in una Bologna già sorridente di un benessere economico insperato, che anticipa quello imminente in molte altre città del Nord.

 

Il Bar Margherita si trova nei portici di via Saragozza, di fronte all’abitazione del regista bolognese allora adolescente. Avati rielabora una serie di ricordi divertenti e un po’ impressionanti rispecchianti realtà di relazioni avute con alcuni componenti del Bar e testimonianze personali in episodi guardati con l’occhio ingenuo del ragazzo di diciotto anni. Sono ricordi rimastigli particolarmente impressi perché legati all’esclusione di cui era stato oggetto in quegli anni dagli

adulti del Bar, una esclusione che mal sopportava, a cui non si rassegnava per niente, facendo di tutto per attirare l’attenzione, imbastendo legami tattici di ogni genere, nella speranza di rendersi simpatico a qualcuno del gruppo del Bar.

 

Il Bar Margherita è frequentato da diversi incalliti giocatori, esperti nel bigliardo, nel gioco delle carte, e nella collezione di belle donne.

Gli abitudinari sono anche amanti della spericolatezza automobilistica e dello scherzo pesante, quest’ultimo a volte addirittura architettato in modo fortemente vendicativo, o nella più banale malvagità, con serie conseguenze sulle persone.

 

 

 

 

Nel film ci sono anche le truffe preparate ad arte, le passioni deliranti per Il festival di

Sanremo, ascoltato dalla radio di casa o del Bar sempre stando in gruppo e

polemizzando, gli occhiali a raggi K, lanciato con una pubblicità ingannevole, costruiti

per vedere le donne sotto i vestiti ma in realtà del tutto inutilizzabili; le tragedie sessuali

degli ottuagenari che si innamorano delle belle maestre di pianoforte prendendo lezioni

a domicilio, finendo poi per morire di infarto durante l’atto sessuale, le feste danzanti 

pomeridiane nelle case, etc.

 

Il film di Avati, da una parte mostra un’epoca ricca di buon gusto, oggi impensabile, ma

dall’altra, sulla scia dei resti culturali del regime fascista, raffigura una mentalità

annebbiata da frustrazioni di ogni genere, dominata da ambizioni spesso fallite, chiuse da violente prevaricazioni di terzi, ma soprattutto l’abitudine a risolvere i conflitti e i problemi da soli o in gruppo accontentandosi della vendetta o dell’imposizione, anziché dell’azione giudiziaria o della via culturale del dialogo.

 

 

 

 

Recensione a cura di Giordano Biagio

 

Collaborazioni: 

Se anche tu vuoi collaborare con Manifesto 0 o chiedere la pubblicazione di un qualsiasi contenuto inerente scrivici a Emme0Mzero@gmail.com

Tag più frequenti: 

© 2012 - 2017 by Manifesto Ø

bottom of page