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I Tre Volti della Paura

Produzione: It. 1963

Genere: Horror
Durata: 90′

Regia: Mario Bava

Soggetto: F.G. SnyderAleksej TolstojAnton Čechov

Sceneggiatura: Marcello Fondato, Alberto Bevilacqua e Mario Bava

Produttore: -

Fotografia: Ubaldo TerzanoMario Bava
Costumi: Tina Grani
Trucco: -

Scenografia: Giorgio GiovanniniRiccardo Domenici

Effetti Speciali: -

Montaggio: Mario Serandrei

Musiche: Roberto Nicolosi

Cast: Michele Mercier (Rosy, I), Lyda Alfonsi (Mary, I), Boris Karloff (Gorca, II), Mark Damon (Vladir D'Urfe, II), Susy Andersen (Sdenka, II), Massimo Ghini (Pietro, II), Glauco Onorato (Giorgio, II), Rika Dialina (Maria, II), Jacqueline Pierreux (Helen Chester, III), Milly Monti (cameriera, III), Herriet Medin (miss Perkis, III), Gustavo De Nardo (ispettore di polizia, III)

 

Premi:

-

 

 

Trama:

Vedi sotto recensione

 

 

Recensione:

I TRE VOLTI DELLA PAURA, è un’opera horror ad episodi, del 1963, a colori, indubbiamente

apprezzabile specialmente per la riuscita estetica delle varie raffigurazioni che si avvalgono di uno

stile cinematograficamente classico di buon gusto.

Il film, seppur raffinato, è caratterizzato da un modo di narrare non eccessivamente sfumato che

finisce per andare a vantaggio dello scorrere avvincente dei tre racconti, sempre agile e di facile

apprendimento. Il film non perde mai il rigore del filo rendendo comprensibili anche i significanti

più relegati sullo sfondo, quelli che persistono un po’ in ombra mettendo in evidenza tracce di

pensiero filosofico nei segni-dettagli dei dialoghi di attesa e del linguaggio visivo più collaterale al filo

principale.

I tre volti della paura su un piano più d’insieme si presenta anche molto elegante grazie a una

composizione delle inquadrature fotografiche ricca di dettagli significativi, in armonia con un’estetica

più esigente che appare molto stimolante, particolarmente aggraziante per l’occhio.

Il film coglie un costume ed alcuni elementi salienti dell’architettura europea e statunitense

dell’ottocento e inizio novecento, rifacendosi sotto questo aspetto a codici tipici di un’era

cinematografica passata rappresentata per lo più dal cinema americano anni ’40.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I TRE VOLTI DELLA PAURA è firmato da quel indimenticabile regista-autore italiano, ricco di un indiscusso talento visivo e narrativo, che fu Mario Bava.

Un artista valorizzato più all’estero che in Italia, forse perché il nostro paese vedeva sorgere negli anni ’60 un nutritissimo numero di grandi registi e produttori, che inevitabilmente, con il loro lavoro, finivano per dividersi tra i vari gusti del mercato rimanendo a contatto con le comunicazioni mediatiche il più delle volte per un tempo scarso, che non consentiva di mettere in rilievo aspetti culturali e pubblicitari di se stessi e dei film con un certo spessore: essi dovevano infatti fare i conti con la multiforme ripartizione dei tempi e degli spazi mediatici, assai ristretti, a disposizione del cinema, in un’era che di cinema a livello di massa si scriveva ancora veramente poco.

Il film si conquista un posto d’onore nello storia filmica horror della cinematografia italiana soprattutto per il suo felice equilibrio tra tensioni horror e raffinato contesto letterario che le prepara e supporta.

Nel primo episodio una donna molto bella viene minacciata di morte per telefono da un ammiratore psicopatico. Nel secondo una famiglia è fatta oggetto di una originale forma di vampirismo. Nel terzo una donna dopo aver rubato un anello ad una signora defunta subisce la vendetta del suo fantasma che trova, per entrare in relazione con lei, una strada psichica facile: precisamente insita nel senso di colpa insorto nella ladra a seguito del furto.

 

 

 

 

 

 

 

Riassumendo si potrebbe dire che solo apparentemente

sono tre i tipi di paura argomentati (come sembra voler

suggerire il titolo), in realtà essi sono quattro perché in un

episodio un volto di paura ne nasconde un altro di diversa

origine.

Una è la paura dei vivi folli e omicidi, descritta nel primo

episodio dal titolo "Il telefono", un’altra è la paura dei

non-morti, dei vampiri, condannati a non morire per l’eternità

salvo l’andata a buon fine di alcune modalità di intervento esecutivo umano, narrata nel secondo episodio intitolato "I Wurdalak", terza e quarta è la paura dei morti nell’episodio "Goccia d'acqua", dove appare da una parte in una forma di senso di colpa, costituita di un tessuto psicologico e metaforico che autopunisce la ladra dell’anello e dall’altra come paura di un fantasma reale in opera che incarna il corpo della medium anziana deceduta.

Il primo episodio sembra che sia tratto da una storia di G. F. Snyder, anziché di Maupassant come alcuni sostengono, il secondo episodio è tratto da un racconto di Tolstoj e richiama per certi aspetti il cinema di Corman che traeva alcune ispirazioni dagli scritti del terrore di Edgar Allan Poe. Il terzo episodio è ispirato da uno scritto di Cechov che amava soffermarsi sulle varie modalità con cui si manifesta il senso di colpa negli umani.

Ma perché questo film merita ancora una grossa attenzione, soprattutto sulle tematiche sollevate intorno alla paura? E si possono formulare in un modo di verso, più comprensibile, le paure da esso messe in scena?

La paura è una normale reazione a un pericolo che minaccia la propria vita o la nostra salute mentale ed esistenziale; ma che dire di quell’altra paura che è potenzialmente dentro noi, sedimentata in forme fantasmagoriche rimosse, virtualmente riattivabili da situazioni particolari, da oggetti causa esterni o da desideri improvvisi di natura profonda ed enigmatica legati all’infaticabile lavoro di difesa e offesa dell’inconscio in opera, lavoro vitale per non soccombere alla complessità casuale del quotidiano?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il film di Mario Bava elabora qualcosa della paura calandosi soprattutto su realtà chiaramente nevrotiche dell’essere umano, abolendo ogni confine preciso tra realtà del presente e realtà passata, riferita alla biografia dei protagonisti che appare sovente impregnata di sintomaticità leggibili psicanaliticamente: sia nella vittima che nell’aggressore.

E’ come se qualcosa delle vicende storiche familiari si fosse sedimentato da lungo tempo nell’animo dei protagonisti, lasciando dei segni attivi, rimanendo in una forma di brace psichica viva, allo stesso modo del carbone semi consumato presente in una vecchia stufa: acceso ma privo di fiamma.

Qualcosa in stretta relazione con un evento quotidiano che riapre l’inconscio riesplode a un certo punto, infiammando la coscienza, presentandosi sotto la forma violenta di un desiderio aggressivo, senza una precisa meta se non quella di appagare il fantasma che lo incorpora, soddisfarlo cinicamente, anche distruggendo cose e persone o autodistruggendosi.

Vittima e aggressore si ritrovano allora complici perché animati da una parte da un senso di colpa che paralizza, impedendo la fuga, e dall’altra da un bisogno di fare un male compensativo, vitale, acquetante ma paradossale perché necessario per la propria salute mentale la cui ricerca è divenuta ambigua, già votata all’immorale, essendo il soggetto stato offeso duramente dalla vita.

Recensione di Biagio Giordano

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