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Il grande Attacco

Produzione: It. 1978

Genere: Guerra
Durata: 100' 

Regia: Umberto Lenzi

Soggetto: Umberto Lenzi

Sceneggiatura: Umberto Lenzi, Cesare Frugoni

Produttore: Luciano Martino

Fotografia: Federico Zanni
Scenografia: Giuseppe Bassan

Costumi: Luciano Sagoni
Trucco: -

Effetti: Gino Vagniluca

Montaggio: Eugenio Alabiso

Musiche: Franco Micalizzi

Cast: Helmut Berger (Tenente Kurt Zimmer), Samantha Eggar (Annelise Hackermann), Giuliano Gemma (Capitano Malcolm Scott), Henry Fonda (Generale Foster), John Huston (Professor O'Hara, corrispondente), Edwige Fenech (Danielle)

 

Premi:

 

-

 

 

Trama:

Durante i Giochi olimpici del 1936 alcuni delegati tedeschi, americani, irlandesi, e una famosa attrice del

mondo teatrale, si incontrano amichevolmente in Germania per una cena dall’aspetto diplomatico. La

preoccupazione di una guerra di invasione tedesca nel resto dell’Europa è nell’aria, i segni premonitori

non mancano, il tipo di propaganda del partito nazista fa paura, Hitler eletto cancelliere vuol diffondere

la sua ideologia nel mondo e combattere la diversità razziale senza mezzi termini, la sua paranoia fa

ormai corpo con le masse, ma la delegazione sembra avvertire solo il clima di festa di un’Olimpiade

straordinaria che per mezzi impiegati e invenzioni scenografiche non avrà in seguito eguali.

A tavola si parla del clamoroso rifiuto di Hitler di riconoscere le vittorie ottenute dal nero americano

Jesse Owens, trionfatore nell’atletica con quattro medaglie d’oro, un atto chiaramente razzista anche se

quel rifiuto poi sarà considerato come privo di fondamento dallo stesso Owens, ma la notizia scandalo

ha già fatto il giro del mondo, essa viene minimizzata a cena dall’ufficiale tedesco il quale non crede al

pericolo di un conflitto armato in Europa e sostiene che Hitler vuol solo combattere le minoranze etniche

nella propria Germania.

La vita di questi personaggi in buona parte famosi, amanti dei rapporti diplomatici, per ironia della sorte, sarà in seguito scossa, e in alcuni casi sconvolta, dalla seconda guerra mondiale, da quel immane conflitto armato che in quella famosa cena del ’36 essi ritenevano fosse praticamente impossibile. I diversi luoghi degli episodi narrativi saranno: Berlino, Los Angeles, Plymouth, Creta, West Point, Le Havre.

Il tedesco tenente Roland che poi diverrà maggiore dell’esercito tedesco sposerà un’attrice famosa, mezza ebrea da parte di padre, la

stessa che partecipò alla cena diplomatica del ’36 accompagnata dal generale Foster. Allo scoppio della guerra Roland dovrà partire per l'Africa mentre lei sarà oggetto di attenzioni da parte di un ufficiale della Gestapo: prima con proposte erotiche ricattatorie in cambio del silenzio sulle sue origini, poi con disposizioni di sequestro carcerario, gravemente persecutorie e in un certo senso ingiuste perché la procedura prevedeva di rinchiudere solo tedeschi semiebrei: originati da madre ebrea.

Il Generale Foster (Henry Fonda), richiamato in servizio, perderà un figlio in guerra, ma sognerà con ansia di vedere salvo l’altro. Un anziano professore irlandese, O’ Hara (John Huston), amante del alcool tornerà a fare il corrispondente di guerra, rischiando spesso la vita. Egli sogna reportage di grande interesse, ed è perciò troppo incurante del pericolo, pur di essere al centro delle battaglie decisive dell’Ottava armata nel Nord Africa, raggiungerà

posti ad alto rischio, insieme a un giovane cronista-autista che ripetutamente gli consiglia, invano, più cautela.

Un altro ufficiale tedesco in Francia (Helmut Berger) tenta di aiutare una povera e bella vedova costretta per vivere alla prostituzione (Edwige Fenech); ma lei viene presa di mira dai partigiani, che ritengono le sue relazioni con i clienti militari intriganti, e lui sarà controllato con sospetto dalle SS per le debolezze umane manifestate con la prostituta. )

 

 

Recensione: 

Questo film di Lenzi si distingue a prima vista per il forte contrasto tra i giganteschi mezzi impiegati nella realizzazione, compreso la presenza di numerose star un po’ attempate, e uno stile recitativo poco formalizzato, vicino al telefilm, che se da una parte eleva il livello affettivo trasmesso dai personaggi, che hanno modi espressivi più diretti, un po’ spontanei,

dall’altro fa mancare alla narrazione la professionistica e necessaria drammatizzazione

dei volti, quella più ricercata e fotograficamente meglio studiata nei film di qualità.

 

Mancano poi, sia un linguaggio più articolato degli sguardi, che sono poco modulati nelle

pieghe del volto, sia una maggiore profondità dei dialoghi, che risultano carenti di quello

spazio espressivo di qualità necessario a far uscire i personaggi dal dialettismo del dire

comune. Il film di qualità eleva il gioco simbolico dei contenuti linguistici verso qualcosa

che confina con concetti etici universali, immersi come elemento di progresso nella posta

in gioco politica e sociale del momento, basti pensare a quel capolavoro di film che era IL

GIORNO PIU' LUNGO dove si respirava con grande pathos l’aria di liberazione dal nazismo

e dal fascismo.

 

Quindi se per lo spettatore questo film, prima e durante le scene di guerra, acquista molto in affettività e calore per le citate carenze formali, perde nello stesso tempo in forza di pensiero e autorevolezza narrativa, calandosi nei vari significati in gioco della guerra con incertezza e con una ricercata ma semplice, priva di sfumature, comunicazione degli stati d’animo dei personaggi che toglie imprevedibilità al finale.

 

Manca l’enigma più elaborato, il mistero complesso, la violenza dettagliata che si confonde con il suspense, il coraggio di andare più a fondo nelle questioni scandalo mostrando tutta la faccia della perversione e del male legato alla corruzione che la guerra da sempre genera al suo esterno e interno. Di tutto ciò quel poco che c’è nel film avrebbe dovuto essere sceneggiato con particolari più pregnanti, carichi di odio opportunamente amplificato in una funzione tempo, al limite usando la tecnica del ralenti.

 

Un film come questo avrebbe potuto essere promosso in serie A a patto che avesse espresso un messaggio almeno intellettuale, qualcosa di meglio formulato sul piano del pensiero in grado di far da sfondo alle scene, cioè un’etica precisa, un’ideologia legata alla condanna del

presente, o un’utopia. Lasciando invece parlare le cose per quelle che sono, nel loro manifestarsi più ingenuo, facendone fatti e basta, Lenzi dimostra da una parte onestà narrativa e artistica, dall’altra trascuratezza commerciale, facendo pagare al film, rispetto al mercato in cui si situa, un prezzo troppo alto, impoverendolo di spettacolo e pathos, di forza morale e utopica, di poesia e sogno, lasciando in sospeso nel nulla una debole denuncia di fatti bellici accaduti e non interpretati.

Ma una grandezza questo film ce l’ha, ed è precisamente la capacità di dare un’immagine del cinema altra, che con la l’abbattimento del formalismo espressivo invita gli spettatori ad entrare nello schermo, essendosi abbattute le separazioni cinema-spettatori, questo a vantaggio di nuove identificazioni e proiezioni da parte di chi guarda, che vanno nella direzione di una partecipazione al film più reale, priva di riguardi e timidezze verso il mondo-media del film.

Mancando in questo film la ricchezza formale che seduce e incanta lo spettatore, inchiodandolo fisso e rispettoso alla poltrona, è come se si fosse creata una sorta di invito a partecipare di più alle scene, ad abbattere la barriera spettacolo-sogno per entrare in un mondo situato meglio, con più forza, tra l’immaginazione e il vero.

 

Lo spettatore allora nell’uscire dalla sala, avvertirà molto meno il senso di separazione tra film finito e realtà presente, disincantata, il suo immaginario appena vissuto troverà subito una continuità con il reale esterno mantenendo unitaria, composta, equilibrata quella parte della psiche che riguarda l’Io nel suo rapporto con l’inconscio.

 

Il film ha avuto un discreto successo di critica e di pubblico, a dimostrazione della capacità di Lenzi nel raccontare e coinvolgere il cuore della gente. I limiti di qualità scenica che contraddistinguono, Lenzi come regista, sono allora una sorta di bruttezza feticistica, che è un sintomo immagine molto amato dai cinefili, anche in altre situazioni, e adorato dalle persone che al cinema non desiderano subito pensare ma preferiscono per farlo attendere senza fretta un’occasione sociale.. 

 

 

 

 

Recensione a cura di Giordano Biagio

 

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