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Itaker - Vietato agli Italiani

Produzione: It. 2012

Genere: Drammatico
Durata: 98
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Regia: Toni Trupia

Soggetto: Toni Trupia, Michele Placido e Leonardo Marini

Sceneggiatura: Toni Trupia, Michele Placido e Leonardo Marini

Produttore: Michele Placido, Federica Vincenti e Bobby

 Paunescu

Fotografia: Arnaldo Catinari
Scenografia: Nino Formica

Costumi: Andrea Cavalletto
Trucco: -

Effetti: -

Montaggio: Consuelo Catucci

Musiche: Davide Cavuti e Marco Biscarini

Cast: Francesco Scianna (Benito), Monica Bîrlădeanu (Doina), Michele Placido (Pantanò), Tiziano Talarico (Pietro), Nicola Nocella (Goffredo)

 

Premi:

 

  • 2013 - Nastri d'argento

    • Nomination Migliore attore protagonista a Francesco Scianna

  • 2013 - Globo d'oro

    • Nomination Migliore sceneggiatura a Michele Placido, Toni Trupia e Leonardo Marini

 

 

Trama:

Il protagonista del film, Pietro, un bambino rimasto orfano a seguito della morte improvvisa della madre,

si ritrova, per interessamento umanitario del parroco, in viaggio verso la Germania, con uno sconosciuto 

di nome Benito.

L'uomo con una lettera-documento di accompagnamento ha promesso di riportarlo dal padre, mai visto

prima, emigrato da anni in Germania e disinteressato del tutto, a un certo punto, della sua famiglia.

Pietro scoprirà che Benito si era preso cura di lui anche per ottenere un passaporto altrimenti difficile da

avere.

L'uomo appare ambiguo, a volte sembra desideroso di sbarazzarsi al più presto di quel fardello umano. Il

bambino inizia a vivere nelle baracche di legno costruite per gli immigrati vicino alla fabbrica, prendendo via via coscienza, assieme a loro, di una realtà difficile da vivere perché spesso dominata da mali di ogni genere, una realtà fatta di violenze, umiliazioni, competitività scorretta, scherzi mortali, sfruttamento bestiale, delusioni. 

 

 

Recensione: 

Itaker – Vietato agli italiani traccia un percorso narrativo dal sapore prosaico strettamente storicistico che costeggia in alcuni tratti la poesia della malinconia per vie originali, portandoci, animati da una curiosità sempre più coinvolgente, da un paesino del trentino, nel 1962, alla complessa Germania industriale di quel periodo.

Il regista Trupia si sofferma in particolare sugli ambienti più da sopravvivenza che vedono protagonisti nelle baracche, annesse alle fabbriche, lavoratori provenienti da diverse nazioni: italiani soprattutto.

 

Dopo il bellissimo film L’uomo giusto (2007), storia d’amore complessa tra un settantenne italiano e una ragazza russa di 22 anni, e dopo aver girato insieme a Ramon Alos Sanchez l’interessante documentario Incidenti (2005), Trupia sembra aver trovato il passo giusto per esprimersi al meglio come regista-autore in una serie di nuovi progetti filmici. Trupia è stato anche aiuto regista, e ha scritto diverse sceneggiatore per film di qualità che hanno avuto un buon successo di critica.

Itaker è un sopranome dispregiativo proveniente dal sociale tedesco più insicuro e povero, quello di notevole miseria anche culturale, è un termine dato a quella parte assai minoritaria degli italiani dediti, in Germania, per lo più alla malavita.

La fotografia del film, dai colori cupi, freddi e stinti, dipinge bene l’atmosfera psicologica ed esistenziale presente in quelle

baracche e nelle strade esterne situate nel quartiere. Quest’ultimo è un rione squallido, uniformemente grigio, gelido testimone di smagliate e conflittuali tradizioni, di radici ferite che rendono ancora più difficile la convivenza umana che anima la comunità di immigrati nel sociale tedesco. 

 

La lontananza dalla famiglia, accrescerà in alcuni disperazione, depressione, malinconia, facendo perdere la voglia di lottare per i propri diritti, cosa che accentuerà lo sfruttamento dei manager di fabbrica. Finché un giorno a utilizzare la situazione di estrema debolezza psicologica presente negli immigrati, sarà il boss locale Pantanò (Placido), un "Itaker" a tutti gli effetti, venditore di stoffe contraffatte e dedito a truffe di ogni genere, l’uomo accoglierà una domanda di lavoro supplementare di Benito, per poi impadronirsi della sua volontà e della sua donna, e godere di una ebbrezza di onnipotenza senza confini etici.

 

Questo coinvolgente e straordinario film drammatico impregnato di

vero, ha già portato allo staff che lo ha realizzato, un Nastro d’argento

e a un Globo d’oro. L’opera è firmata da Toni Trupia, un autore-regista,

militante da anni, in forme collaborative diverse, nel cinema di qualità,

con risultati di tutto rispetto.

Toni Trupia è un artista di cinema che non ama il rumore mediatico,

costruisce le sue opere cercando modi espressivi potenti e originali in

grado di configurare al meglio la profondità dell’accadere che

caratterizza la vita reale più problematica delle persone.

Trupia sembra voler rinunciare a quel tipo di intrattenimento mediatico,

per lo più spettacolare, e forse oggi predominate nel cinema, che viene

scambiato, a causa della forza dell’influenza della politica di oggi e della

televisione nel campo della sottocultura, come capacità di comunicare

con le masse, che altro non è se non un paradosso, soprattutto se si

pensa agli accecanti vuoti culturali che i media ogni giorno accendono mettendo in primo piano le miriadi di irragionevoli e a volte manipolanti proposte consumistiche. Non dimentichiamo come il genio di Pasolini avesse individuato da tempo nella società dei consumi, nata nel dopoguerra, forme di aggressività ideologica e autoritarismo simbolico, con pesanti condizionamenti psicologici, accompagnati da cinismo e impersonalità fantasmatica dei soggetti-autori, cose simili per certi aspetti al peggior fascismo.

 

Questo film, con i suoi eventi tinti di vero e ad alto contenuto umanistico, privi di effetti edulcoranti, sembra voler sollecitare, tra le altre cose, una critica tra le righe al concetto di comunicazione così come lo si intende nella nostra società dei consumi a partire dal dopoguerra ad oggi. E’ qualcosa di estremamente opportuno, sopratutto se si pensa che viviamo in un contesto mediatico sempre più opprimente che, nonostante il diffondersi dei nuovi media interattivi, vede il massiccio affermarsi del linguaggio delle apparenze.

Da un punto di vista un po’ più intellettuale sembra si possa dire quindi che l’interesse artistico e letterario del regista-autore Trupia riguardi la condizione umana per come è effettivamente, intesa in tutte le sue sfaccettature più dure, storiche, sociali ed esistenziali. Quest’ultime appaiono, nei personaggi di Trupia, spesso colorite di passioni autodistruttive, vita e morte in esse sembrano infatti sempre meno distinguibili, tanto da apparire fuse, cosa che

fa sorgere nello spettatore la sensazione che i personaggi del film siano posseduti dal magico effetto prodotto dalla seduzione ad alto rischio, quella in grado di portare, nell’indifferenza etica, i personaggi immigrati sulla piacevole e avventurosa soglia della malavita.

 

Vita e morte allora sembrano non avere più una frontiera precisa, come è osservabile nelle famiglie oneste che vivono una fase felice, anche lunga, della loro vita. In questo film i due termini, con le loro rispettive pulsioni rappresentative, si intrecciano, inaugurando un tragico percorso dove il piacere, ostinato, trova sempre un suo posto perché freudianamente affonda le sue radici in quelle risorse umane che scaturiscono dal principio di piacere inconscio. Un piacere, che in certe condizioni di miseria, può appunto procedere via via nella direzione del male, accostandovici tragicamente senza paura.

Vita e morte inseparabili quindi in questo film, ma ben leggibili sociologicamente e psicologicamente attraverso il medium cinematografico grazie a un interesse anche poetico dell’autore-regista del film che sembra proprio ispirato.

Vedendo e riflettendo su questa opera, si rimane poi stupiti per come essa appaia ancora inspiegabilmente ignorata dalla critica cinematografica italiana, in particolare quella di maggior peso giornalistico.

Recensione di Giordano Biagio

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