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La Dolce Vita

Produzione: It. 1960

Genere: Documentario
Durata: 173′

Regia: Federico Fellini

Soggetto: Federico FelliniEnnio FlaianoTullio Pinelli

Sceneggiatura: Federico FelliniEnnio FlaianoTullio PinelliBrunello RondiPier Paolo Pasolini (non accreditato)
Produttore: Angelo Rizzoli, Giuseppe Amato

Fotografia: Otello Martelli

Costumi: Piero Gherardi
Scenografia: Piero Gherardi

Trucco: -
Montaggio: Leo Catozzo
Effetti speciali: -
Musiche: Nino Rota

Cast: Marcello Mastroianni (Marcello Rubini), Anita Ekberg (Sylvia), Anouk Aimée (Maddalena), Yvonne Furneaux (Emma), Magali Noël (Fanny), Alain Cuny (Steiner), Walter Santesso (Paparazzo)

 

Premi:

 

 

 

Trama:

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Recensione:

LA DOLCE VITA, uscito in bianco e nero nel 1960, è forse il miglior film di Federico Fellini,

indubbiamente il più discusso e provocante, quello che in maggior misura è riuscito a

coinvolgere la critica e il mondo della cultura, portandoli ad esprimersi su diversi e

importanti piani artistici e letterari, con dibattiti televisivi, iniziative editoriali, scritti,

conferenze culturali animate da un fervore polemico straordinario, indimenticabile, forse

unico.

Gli innumerevoli commenti al film, riletti oggi, risultano ancora avvolti da un’aura ispiratrice

potente, esclusiva, che fa capire quanto il film all’epoca fosse intenso, acuto e come tutte le

analisi svoltesi contribuissero a colorare un’atmosfera cinematografica rara, per certi aspetti

unica, creatasi all’improvviso, sulla scia dei numerosi premi vinti dal film, che confermava la

nascita del mito Fellini, un artista tutto italiano, il cui genio veniva riconosciuto nel suo reale

valore trascinando a un fertile confronto artistico anche i critici più scettici.

La dolce vita, pur pubblicizzata con grandi mezzi mediatici ancor prima dell’uscita nelle sale,

è stata per molti spettatori una vera e propria sorpresa cinematografica, piacevole e

stimolante, lontana dalle banali suggestioni dello spettacolo da botteghino e dalle convenzioni narrative più fatiscenti finalizzate a ingrandire a dismisura i disagi o i godimenti della vita quotidiana.

Per altri il film ha rappresentato un disordinato, confuso, disparato movimento di idee e concetti visivi, finalizzati in qualche modo a demolire senza alcuna distinzione, da una prospettiva ribellistica tipicamente felliniana, i più noti valori del cattolicesimo, compresi quelli rimossi appartenenti allo stesso regista riminese.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA DOLCE VITA è in realtà un’opera epocale, di buon livello analitico e rilievo artistico, intrisa di quel potente pensiero critico e laico capace da sempre di svestire i falsi valori che si annidano nei modi di vita del cosiddetto cattolicesimo soft.

Nel film sono prese di mira le certezze più ipocrite del cattolicesimo aristocratico del tempo: quello più subdolo e formale. Fellini si interessa ai rappresentanti più in vista di quel mondo, che costituivano un circolo esistenziale chiuso, indifferente al sociale. Persone dedite a una vita mondana prevedibile, ripetitiva, animati da una inesauribile pulsione trasgressiva, mascherata a stento da una colta raffinatezza.

La dolce vita rappresenta dal punto di vista di Fellini una sferzata critica alla borghesia mondana, alla sua pesante egemonia culturale, al suo mito del successo, al cinismo competitivo che provoca nel sociale, e a quel suo ideale di vita che sembrava voler sancirne anche la superiorità etica sul resto del paese. Un successo secondo lui tanto invidiato quanto paradossale, confuso nella sua trasposizione simbolica, impossibile da realizzare pienamente perché preso nella spirale senza fine di una pulsione oscura, dove il peccato e la sua assoluzione diventavano parte di una struttura ossessiva inguaribile, ancorata alle radici storiche più remote, e legata misteriosamente ad un senso di colpa atavico di cui non si conoscono le cause.

Fellini realizza una pellicola particolarmente pungente che chiama in causa, in virtù della sua portata mediatica e del successo al botteghino, importanti istituzioni pubbliche, sia laiche che religiose, politiche e culturali, consentendo di fare entrare nell’imponente scena critica, colti rappresentanti del Vaticano, affiancati da personalità conservatrici e moralistiche dei partiti (come l’ex presidente della repubblica Scalfaro che dà un giudizio etico negativo) e diversi ceti intellettuali. Il film finisce per coinvolgere anche scrittori attenti alla dimensione letterale della pellicola e saggisti in cerca di una breve gloria che il grande flusso di scrittura, creato dai film di successo, di solito favoriscono.

Il film scandalizza pesantemente sia i ben pensanti che diversi ceti borghesi cattolici e protestanti, coinvolgendo nella polemica anche alcuni Vescovi di provincia noti per una concezione della

religione più politica che educativa, lontana da una vera e

propria escatologia della salvezza. Il clima era tale che alcuni

parlamentari intervenivano alle camere presentando delle

interpellanze sulla liceità o meno del film.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La pellicola mostra, con grande realismo e sagacia interpretativa, il punto di vista di un’artista di genio su ciò che accadeva al di là della facciata etico-mondana che la borghesia, secondo Fellini, esibiva in modo esemplare.

Il film mette al centro i costumi, la mondanità e i pensieri esistenziali di una parte della società italiana immersa in un potente e inedito vortice storico, fautore di forti cambiamenti etici e sociali, che allontanano dai noti valori legati alle sobrietà di vita postbelliche.

Fellini riesce a penetrare in quel luogo altro della borghesia, indubbiamente più privato, riservato, da cui è possibile scorgere, in modo privilegiato, le sue più vere caratteristiche di costume e le contraddizioni più sottili che intaccano la bellezza dei valori professati.

Il regista trasmette al pubblico il privato borghese più intimo e inconfessato, i suoi dettagli più significativi, girando le scene in luoghi reali, sempre diversi, che rafforzano la credibilità del racconto, dando un’idea difficilmente eguagliabile dei vezzi di vita e dei divertimenti più snobistici di una classe mai così in ascesa,.

Fellini è attratto dalle eccentricità della borghesia, dai suoi riti salottieri e nottambuli, dai gusti perversi che tradisce nei momenti di debolezza, e dalle tecniche più ciniche e raffinate usate per affermare il proprio potere sulle classi umili.

Il film vive di una struttura narrativa straordinariamente ricca di azioni, sempre dinamica, immersa in una modalità narrativa brillante, dove l’ironia e il sarcasmo, avvalendosi di una lodevole e sorprendente spontaneità recitativa si alternano efficacemente alle seriosità dei discorsi, avvolgendo il film in un’atmosfera realistica e onirica altamente comunicativa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fellini gira in una Roma in forte cambiamento, dove alla povertà si affianca sempre di più un ceto ricco, arrogante, cinico, che porta un’immagine nuova dell’Italia nel mondo, lontana sempre più dalla metafora della fame presente nel neorealismo ma intrisa di nuovi problemi, più di costume che economici, più etici che materiali, questioni di cui si avverte tutta la gravità e che sembrano annunciare un futuro assai complesso e difficile.

Fellini dà grande potere alla macchina da presa, rendendola testimone oculare di ciò che accade nel reale, in particolare in quel vivo della realtà più costruito, ricercato, dall’atmosfera carica di snobismo, tipico delle chiassose sere romane di via Veneto un tempo silenziose e tristi.

Il regista in questo film sembra intenzionato a mettere in campo una specie di finta diretta, costruendo con la rappresentazione filmica una realtà che pare citarsi da sola, come nella scena della falsa apparizione della madonna dove in dieci minuti ciò che viene mostrato dice tutto sulla mentalità popolaresca di quel tempo. LA DOLCE VITA assume quindi i toni visivi di un apparente reality, dai tratti iper realistici e originali costruito con la mente e i luoghi reali di Roma, mai con il cuore.

Alcuni posti de LA DOLCE VITA fanno parte delle periferie, e mostrano svariate marginalità sociali testimoniate da alcune memorabili scene come quella in cui si vedono gruppi di pecore al pascolo. Sono territori poveri di forme estetiche, dove il miracolo economico sembra non voler giungere, e in cui si avverte tutta la tragica situazione del sottoproletariato, come ad esempio nella scena che vede protagonisti il giornalista Marcello e l’aristocratica Maddalena intenzionati per snob a dare un passaggio in macchina a una passeggiatrice nei pressi di via Veneto. La donna accetta di salire nella lussuosa vettura e viene portata a lungo in giro per Roma partecipando malvolentieri al dialogo a tre di cui non afferra il senso.

Alla fine i due nel riaccompagnarla a casa scoprono le miserie del suo

fatiscente appartamento di periferia, inondato d’acqua e con i muri

pieni di muffa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il film finisce per svelare ai più, con acutezza, ciò che con le buone maniere, il successo, la lussuosa eleganza, la bellezza mondana, le parole raffinate, e lo scandalismo creato ad arte, una certa e famosa borghesia allora nascondeva.

La dolce vita, sottolinea la falsità di un mondo cinico e infantile, diseducato alla vita impegnativa e responsabile, un mondo frequentemente invidiato e amato da molti, spesso in modo ambivalente, e sovente fantasticato in una forma perversa che lo rendeva spettrale, privo di contenuti.

Il regista riminese evidenzia il vuoto esistenziale della società bene, anche di quella più acculturata, dando un duro colpo al potere mediatico che alimenta e guida, con la forza della fantasmagoria il desiderio popolare. Ne è una testimonianza la scena erotica tra Marcello e Maddalena nella casa della prostituta, i due fanno l’amore con passione in una stanza, posseduti da un eccitamento irrefrenabile scatenato proprio dalla miserabile condizione di classe osservata in quel momento.

Quello che LA DOLCE VITA alla fine rilascia è un gelido senso di vero, che penetra nella profondità delle ossa dello spettatore, raggelandolo, immergendolo violentemente in un’esistenza altra, dove il divertimento cinematografico è praticamente assente, lo spettacolo rimosso, la disillusione totale, e il tutto lascia il posto a cose che parlano in modo più diretto, quasi offendendo, intaccando la propensione di ciascuno a sognare e amare lo spettacolo cinematografico in una forma non critica ma diversiva.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fellini rovescia la credenza di origine accademica, molto diffusa anche nel mondo scientifico, secondo cui la realizzazione del sogno è sempre positiva, distinguendo tra il sogno che ha radici in un reale autentico, affrancato da violenze, libero perciò da identificazioni coatte, patologiche, e il sogno costruito da forze terze, poste al di fuori dell’individuo, la cui influenza sull’inconscio di ciascuno può generare miraggi, deliri. Quando Marcello (Mastroianni) nel film, realizza, grazie all’aiuto dei suoi amici più influenti, il sogno di divenire Agente pubblicitario, sperimenta subito dopo inedite delusioni, come l’impossibilità di godere del suo nuovo stato privilegiato senza avvertire complessi di colpa, e la tristezza nel veder svanire il suo desiderio di scrivere libri.

Il regista con questo film, a tratti autoreferenziale, sembra inoltre mettere in discussione anche il cinema stesso, mostrando sia l’intera capacità mistificante che il cinema può assumere come media sia le psicologie più marcate che si formano nei protagonisti di quel mondo.

Per tutto lo svolgimento del film Fellini vive le cose che descrive con deciso distacco, senza ripensamenti, conducendo la sua opera al capolavoro.

La pellicola, sul piano dello svolgimento stilistico segna indubbiamente un forte distacco dal neorealismo, anche se ne mantiene, soprattutto in alcune scene di massa come quelle che si svolgono nel ciak della falsa apparizione della madonna, tutta la tecnica espressiva.

Il film è paragonabile a uno splendido affresco con protagonisti ottantasei splendidi personaggi, tutti dipinti con maestria e genio analitico, costruiti in ruoli di grande efficacia espressiva.

Fellini è geniale anche quando si cala nelle realtà più plebee, descrivendone le tormentate speranze, così poco reali e metafisiche, intrise di fantastico, di un illusorio ormai catalogabile, tipicamente italiano, alimentato dal potere politico e religioso. Un mondo dominato dal misticismo più superstizioso, alimentato dalla televisione che soddisfa in modo virtuale il bisogno di apparizioni e di miracoli, favorendo la tragica confusione tra delirio di grandezza e realtà misera . Un mondo un po’ folle, dove grazie ai media televisivi gli interventi divini possono essere programmati, rendendo più comode le riprese e le organizzazioni di massa della Chiesa e della RAI TV sul territorio interessato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il film nonostante le sue forti impronte neorealiste, segna la nascita di un surrealismo cinematografico inedito, ripreso poi anche da 8 E 1/2, caratterizzato da una riproduzione puntigliosa delle situazioni sociali e storiche del tempo ma nello stesso tempo impegnato a costruire sopra la base del vero, una fitta rete di metafore e simboli onirici che consentono di comporre concetti per immagini di maggior spessore e chiarezza, favorendo una lettura più complessa e colta della realtà rappresentata.

Federico Fellini ne LA DOLCE VITA fa entrare in gioco tutto se stesso, ignorando ciò che si chiama paura o timore riverenziale, senza mai rinunciare al suo pensiero più critico e moralistico, e prendendo in considerazione le fantasmagorie giornaliere più indicibili e scandalose comprese le proprie.

Il film è tristemente famoso anche per il taglio subito da un’importante scena che vede protagonisti Marcello Mastroianni e Anita Ekberg, girata nella sommità della Basilica del Vaticano. Della famosa scena viene eliminata quella parte che ironizza simbolicamente, tramite un cappello da prete, sulla potere della chiesa a Roma.

Il taglio ha fatto molto discutere, è stato indubbiamente un grave gesto di offesa verso la libertà culturale nel cinema. La censura italiana sembrava accanirsi in quel tempo più verso il pensiero espresso con immagini, in particolare su quello ritenuto scandaloso, che verso il nudo e la sessualità più esplicitata e perversa, offendendo sia l’intelletto più artistico dell’autore sia il suo pudore nel voler rappresentare con metafore e simboli cose altrimenti irascibili.

La scena del taglio è nota. Dopo il festoso arrivo a Roma della star americana Silvia (Anita Ekberg), Marcello, incaricato dal produttore Scalise di intrattenere la diva in città, accompagna la donna in Vaticano per una visita, e insieme salgono i settecento scalini della cupola di San Pietro. Lei è tutta vestita di nero, con in testa un vistoso cappello da prete, a falde larghe scure. Giunti faticosamente in uno dei poggioli della sommità del sacro edificio, i due iniziano una breve conversazione su Giotto, quando all’improvviso si leva una folata di vento che fa volare via il cappello alla diva. Il cappello nero, dopo un breve e disordinato

volteggio nell’aria, viene inquadrato dalla telecamera più da vicino, con una

perfetta zoomata, nel mentre copre buona parte della città di Roma, lasciando

intendere il grande potere del Vaticano sulla città. Il dvd comprensivo della

scena censurata è di difficile reperimento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Da sottolineare ancora il lungo piano sequenza eseguito dal regista in alcune splendide scene iniziali che vedono protagonista un elicottero con appesa a un cavo d’acciaio la statua di Gesù. Nell’abitacolo di guida ci sono, oltre al pilota, Marcello e un paparazzo. L’elicottero avanza veloce tra alcuni resti grandiosi dell’acquedotto romano e un provvisorio campo di calcio, quando arriva all’altezza delle prime case romane viene seguito da una folla festosa di ragazzini e visivamente accompagnato, nella modalità a piano sequenza, dall’occhio della cinepresa. Senza stacco di inquadratura, la telecamera segue l’ombra in movimento dell’elicottero su tutta la facciata di un palazzo esposto al sole, finché l’elicottero non scompare tra le abitazioni.

Numerosi i premi vinti da LA DOLCE VITA, ricordiamo la Palma d’oro a Cannes per il miglior film, l’Oscar per i migliori costumi in bianco e nero a Piero Gherardi, la nomination per la miglior regia a Federico Fellini, la nomination per la migliore sceneggiatura originale a Federico Fellini, Brunello Rondi, Ennio Flajano, Tullio Pinelli, la nomination per la miglior scenografia in bianco e nero a Piero Gherardi, il Nastro d’Argento per il miglior attore a Marcello Mastroianni, il Nastro d’Argento per la migliore scenografia a Piero Gherardi.

Recensione di Biagio Giordano

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