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“La zuppa del demonio”, inseguendo il progresso 

Nuovi arrivi italiani al Lido di Venezia che sembrano svoltare l'opinione pubblica, tra “Hungry Hearts”

che divide la critica e “Il giovane favoloso” che di ottimo ha la ricostruzione storica ma pecca di

durata (qualche scena poteva tranquillamente essere tagliata) in entrambi si sono notate ottime

prove attoriali tra l'ennesima squinternata Alba Rohrwacher  e il gobbetto Elio Germano;

commuove il film furbetto di Salvatores “Italy in a day” che indubbiamente è bello di contenuto, ma

la regia diviene anonima: sarebbe stato più dignitoso girare da sé un documentario-inchiesta

piuttosto che chiedere agli italiani di filmarsi e di spedirgli i video. Ciò che però non abbiamo ancora

citato è forse il film italiano più interessante della Mostra del Cinema di Venezia: LA ZUPPA DEL

DEMONIO di Davide Ferrario.

 

Il progresso del '900 esaltato così amabilmente da Marinetti raccontato con materiali d'archivio

unendo al cinema, letteratura, storia, antropologia e sociologia, senza dimenticare la musica, in

alcuni tratti davvero inquietante. Il montaggio non è da meno: frenetico, agghiacciante, cade sugli

estesi paesaggi di cemento così come sui particolari in fabbrica, filmando la meccanicità del

movimento lavorativo. Un documentario che testimonia i passaggi di un epoca: dalle mani

insudiciate e dai volti segnati dei lavoratori alla mostruosità della fonderia dove si fonde l'acciaio,

passando dall'acclamata visita del Duce negli stabilimenti Fiat del 1939, per la scoperta delle risorse

di metano nel territorio italiano, lo scoppio del boom economico, la grandezza delle dighe,

l'importanza dei pali della luce, le 500 prodotte in serie, i grandi complessi chimici a Marghera, le fabbriche Olivetti, i paesaggi di cemento, i fiumi di autostrade, le nuvole possenti del petrolio che brucia, la centrale nucleare a Latina per terminare con l'automazione, la vincita delle macchine sull'uomo negli anni '70.

 

Il lusso che sognavano era diventato necessità a cui si poteva accedere, avevano patito la povertà e le fabbriche erano diventate ormai le nuove chiese, luoghi in cui i lavoratori riponevano le speranze. L'Italia del passato, l'Italia del presente. Loro credevano in qualcosa, nelle fabbriche e nel benessere, nessuno di loro aveva capito che tutto ciò che era stato fatto con sacrificio, sudore e fatica veniva lentamente divorato dal consumo e dallo spreco. Immagini che sembrano non dirci nulla di nuovo, ma hanno un loro effetto su chiunque abbia ancora un briciolo di buonsenso, quelle in cui i relitti delle auto Fiat vengono gettate nel golfo italiano, i dirigenti guardavano consapevoli e felici, come se avessero compiuto un'opera umanitaria. La scomparsa delle lucciole, i primi problemi di inquinamento, ma l'uomo non si ferma e anche se Ferrario non lo mostra sappiamo bene come sono proseguite le cose dagli anni '70 fino ad oggi. Difatti non è forse tanto la brutalità che il regista ha comunicato con le immagini d'archivio quanto ciò che rimane dopo la

visione di questo film. La crisi e la ricchezza vanno oltre al tempo: nonni e bisnonni non avevano di che mangiare, poi le auto e gli elettrodomestici così lontani dalla realtà operaia sono divenuti parti integranti delle famiglie italiane e oggi che non resta né il lavoro né il benessere ci lamentiamo. Una visione, questa di Ferrario, che verrà interpretata in modi differenti dalla vecchia e dalla nuova generazione: in fondo è colpa loro se ci hanno lasciato questo mondo, pieno di problemi, proteggendoci dalle cattiverie di una società da cui però ora dipendiamo e in cui stiamo mano a mano imparando a farci le ossa, una società agli occhi di chi ci ha cresciuto troppo cupa per farcela toccare e vedere. Il loro progresso ha portato alla modernità, ma il limite tra il bene e il male si assottiglia sempre di più, ci hanno lasciato senza volerlo nelle tenebre di un mondo da ricostruire, possiamo incolpare chi ha esaltato e inseguito il progresso nel '900, ma con quale potere? Potremmo noi mai capirli davvero?

Di Von Chanelly

Manifesto 0, 2 settembre 2014

 

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