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L'Odore del Sangue

Produzione: It./Fr. 2004

Genere: Drammatico
Durata: 100' 

Regia: Mario Martone

Soggetto: Goffredo Parise (romanzo)

Sceneggiatura: Mario Martone

Produttore: -

Fotografia: Cesare Accetta
Scenografia: -

Costumi: -
Trucco: -

Effetti: -

Montaggio: Jacopo Quadri

Musiche: -

Cast: Fanny Ardant (Silvia), Michele Placido (Carlo), Giovanna Giuliani (Lù), Sergio Tramonti (Sergio)

 

Premi:

 

-

 

 

Trama:

(Vedi Recensione)

 

 

Recensione: 

Nel titolo del film, tratto dal romanzo di Goffredo Parise (ed. Rizzoli) è racchiusa una delle chiavi

interpretative più importanti del racconto. L’odore del sangue è un film che non giudica i problemi che

pone, ma cerca di esporli senza falsi pudori per quello che sono. Si limita a mettere in rilievo alcuni

enigmi che scaturiscono dalle passioni umane quando giungono al sesso. Quesiti credibili e ben delineati

atti a suscitare interrogativi fertili intorno ad alcune pieghe tragiche della passione erotica.

Lasciandosi attraversare dai messaggi visivi di Martone le scene vengono percepite in un modo

particolare. E’ come se si avvertisse il senso olfattivo-immaginifico dell’odore del sangue. Il regista fa

regredire psichicamente e storicamente lo spettatore verso un lontano passato, lungo la soglia della

civiltà moderna. Precisamente all’epoca levitica (1552 a.c.) così ben delineata nei suoi aspetti culturali dai testi delle sacre scritture. Gran parte della significazione del film si perde e si rintraccia paradossalmente in un inconscio collettivo le cui tracce rimandano alle parole delle sacre scritture. Testi antichi da cui si può intuire o dedurre qualcosa di decisivo intorno alle leggi imposte sulle pulsioni umane.

 

 

 

Il regista fa entrare in gioco quelle passioni antiche che tendono a ritornare oggi come sessualità violenta: erotismo legato agli istinti di vita più voluttuosi e cinici.

L’erotismo proposto da Martone si svolge con una comunicazione visiva e verbale di alto livello artistico tanto da compensare ampiamente il disagio che lo spettatore prova per certe inquadrature cruente.

Le scene si materializzano velocemente di un significato polisemico e tragico, suscitando riflessioni profonde. Ne sono un esempio i pensieri cui si è indotti a seguito dell’articolazione visiva delle pulsioni erotiche orali. Pulsioni esplicitamente e ripetutamente evidenziate dallo schermo quasi a sottolineare un nodo di significazione nella bocca. Esse ci fanno entrare nelle strutture semantiche più cannibaliche della Bibbia. Strutture complesse ancora presenti in forme diverse nella vita della nostra epoca. Pulsioni che la nostra civiltà, avente

come fine la soddisfazione nel sociale e nell’arte, non riesce a razionalizzare e a sciogliere.

Il divieto di cannibalismo e la norma precisa di non nutrirsi di sangue, già all’epoca delle sacre scritture costituivano un asse etico essenziale influenzato dalle leggi levitiche di Mosè. Un nodo culturale che portava in grembo le premesse per la nascita del civile nell’occidente.

 

 

 

Questo film sembra confermare che la perversione sessuale è il compromesso più opportuno che l’inconscio mette in atto per mantenere un godimento alla vita. Compromesso tra l’assillo di istanze pulsionali cannibaliche e assassine da una parte e la necessità dall’altra, attraverso il simbolico, di rispettare le norme sociali che possono dare soddisfazioni e sicurezze. Chi non comprende questa funzione equilibratrice della perversione, come a un certo punto Carlo (Michele Placido) che abbandona la moglie Silvia (Fanny Ardant) al suo difficile destino erotico con l’amante, contribuisce all’effetto tragedia cui la perversione sfocia quando il suo delirio è socialmente emarginato, moralizzato o castigato. Un film che si presta a diverse letture: psicanalitiche, filosofiche, letterarie, tecniche, ma che scandisce autorevolmente un suo messaggio chiaro e preciso sul pericolo delle passioni cieche. Quelle che si allontano troppo dal rispetto di sé. 

 

 

 

 

Recensione a cura di Giordano Biagio

 

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