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Produzione: It. 1946

Genere: Drammatico
Durata: 92 min

Regia: Vittorio De Sica

Soggetto: Sergio Amidei, Adolfo Franci, Cesare Giulio Viola, Cesare Zavattini

Sceneggiatura: Sergio Amidei, Adolfo Franci, Cesare Giulio Viola, Cesare Zavattini

Fotografia: Archise Brizzi

Scenografie: Ivo Battelli

Costumi: -

Trucco: -

Effetti Speciali: -

Montaggio: Nicolò Lazzari

Musiche: Alessandro Cigognini

Cast: Franco Interlenghi (Pasquale Maggi), Rinaldo Smordoni (Giuseppe Filippucci), Annielo Mele (Raffaele), Bruno Ortenzi (Arcangeli), Emilio Cigoli (Staffera), Leo Garavaglia (commissario)

Premi:

 

  • 1948 - Premio Oscar: Miglior Film Straniero e Nomination Miglir sceneggiatura originale

  • 1946 - Nastro d'argento: Miglior regia a Vittorio De Sica

  • 1947 - National Board of Review Award (migliori dieci film)

 

 

Trama:

Vedi sotto recensione

 

 

Recensione:

Sciuscià è una parola dialettale napoletana derivante dall’inglese shoe-shine (lustrare le scarpe), si riferisce in

particolare ai ragazzi che pulivano le scarpe ai numerosi soldati americani presenti a Napoli e a Roma verso

la fine della guerra, cosa che ne spiega in parte l’origine inglese.



Siamo a Roma nel 1945. Pasquale Maggi (Franco Interlenghi)  e Giuseppe Filippucci ( Rinaldo Smordoni),

lavorano con alterni e insicuri guadagni, come sciuscià sui marciapiedi di via Veneto. Il loro passatempo

preferito consiste nel correre su un cavallo bianco chiamato Bersagliere, cavalcato in due, preso in affitto a

Villa Borghese. Tale è la loro passione per lo stallone che vorrebbero comprarlo, accudirlo in tutti i suoi

complessi bisogni,  amarlo giornalmente, ma il lavoro precario non glielo lo consente, tra l’altro la sorella

piccola di Giuseppe chiede spesso dei soldi al fratello, per strada, al fine di soddisfare le urgenze economiche

della loro famiglia. I due decidono allora, con l’aiuto del fratello di Giuseppe, Attilio, di commerciare in nero,

vendendo coperte americane.
Attilio consiglia ai due una possibile acquirente, un’anziana chiromante (Maria Campi); quando i sciuscià si

presentano alla porta della signora proponendole l’acquisto lei mostra nei loro confronti qualche diffidenza

che appare legittima in un contesto sociale così povero, ma nella chiromante il desiderio di fare un affare è

più forte del buon senso e dopo qualche esitazione si convince a farli entrare nell’appartamento; i tre dopo

una breve trattativa riescono a mettersi d’accordo sul prezzo delle coperte. Ma dopo il pagamento, all’improvviso, irrompono nella casa, spacciandosi per uomini della polizia, Attilio, l’ex possessore delle coperte e un altro losco compagno. I tre accusano la donna di aver compiuto un’azione disonesta, illegale, perché ha comprato dai ragazzi della merce rubata;  i falsi poliziotti perquisiscono quindi l’appartamento con un documento fraudolento, sottraendole di nascosto 7.000 lire.
La donna dopo aver capito di essere stata derubata, e aver inteso come si è svolto il  raggiro, sporge denuncia alla polizia e aiuta i funzionari a trovare i due ragazzi che verranno incolpati di furto e interrogati dal commissario per scoprire i complici. Per dare una svolta all’interrogatorio il commissario simula una punizione con la cinghia a Giuseppe lasciando intravedere a Pasquale, dall’ingresso di un piccolo stanzino aperto, solo il movimento del braccio che colpisce e facendogli sentire simultaneamente l’urlo di dolore di un giovane  attore nascosto. Pasquale è impressionato dagli urli, crede davvero che il suo amico Giuseppe stia soffrendo e a un certo punto cede, facendo il nome di Attilio. Il fratello di Giuseppe viene descritto come uno degli artefici del fatto malavitoso, identificabile come il più elegante dei tre uomini presentatisi dalla chiromante in veste di funzionari della polizia. I due ragazzi vengono rinchiusi nel carcere minorile con l’accusa di  complicità nel furto e poi condannati, la chiromante viene cacciata, in malo modo, fuori dal commissariato per aver comprato al mercato nero le due coperte probabilmente rubate. Giuseppe si dispera per il tradimento, non capisce l’umanità del gesto di Pasquale, pensa che tirando in ballo il nome di suo fratello Attilio, Pasquale abbia voluto salvare se stesso. La loro amicizia comincerà a barcollare, si macchierà di sentimenti d’odio sempre più intensi, tali da  portarli a farsi scorrettezze di ogni genere fino al punto di vanificare il  difficile percorso rieducativo carcerario  e sconfinare nella tragedia.


 

Il film è considerato da molti critici il primo capolavoro neorealista di De Sica già autore all’epoca di sei lungometraggi non tutti in stile neorealista. La pellicola però al botteghino italiano ha subito immediatamente un fiasco (solo 56 milioni di lire di incasso, secondo il dizionario Mereghetti); il film venne clamorosamente criticato nelle sale dal pubblico colto e meno colto, soprattutto da  coloro appartenenti a culture nazionaliste aristocratiche un po’ ipocrite, ancora di derivazione fascista, che professavano la necessità di mostrare sempre, all’estero, un Italia altra, all’altezza sociale e istituzionale delle migliori nazioni europee, come l’Italia non era nel ’45 né lo era mai stata prima e né forse lo sarà mai.

Il film è passato quasi inosservato sulla stampa italiana finché non ha raggiunto un sorprendente successo di pubblico e di critica negli Stati Uniti, vincendo addirittura un oscar, il più importante: quello per il miglior film straniero.
Anche numerosi e  influenti esponenti della cultura politica di sinistra, hanno criticato polemicamente il film di De Sica, non tanto per l’immagine negativa dell’Italia, data dal film al mondo, riferita al nostro sociale fine guerra, cosa che  la sinistra italiana non si è mai preoccupata di nascondere in altre circostanze, quanto per l’abbinamento letterario fantasia - realtà della narrazione, che appare subito troppo squilibrato, indubbiamente a favore del primo termine.
Un abbinamento che slega i personaggi neorealisti della pellicola dal duro reale quotidiano così ben rappresentato, a vantaggio di un virtuale evanescente, legato a un sogno ambizioso, impossibile, che ha rilasciato negli spettatori il sospetto che i sciuscià  volessero solo fuggire dalla realtà, dando l’idea di un messaggio narrativo in negativo, dove la reattività degli italiani ai problemi sociali più veri è mostrata come insufficiente.

Gli autori del film hanno dato l’impressione di voler  trasmettere un messaggio esistenziale pessimista, facendo entrare i personaggi in una  dimensione  metafisica, qualunquista, in antitesi a ogni necessaria ricerca e impegno politico legati alla responsabilità, all’onere etico, che la situazione di quel periodo richiedeva.
​Da una parte quindi il film è  una splendida rappresentazione della vita italiana di quel periodo, sviluppata in modo altamente drammatico, riuscito, emotivamente di grande impatto, con scene di disperazione del sociale crude e vere nonché  raffigurazioni delle durezze istituzionali che appaiono subito di grande credibilità suscitando indignazione e sgomento, soprattutto quella carceraria, che ha minato l’  attendibilità di tenuta del civile italiano e ci hanno fatto sembrare per lungo tempo all’estero un paese da terzo mondo, dall’altra al posto di una speranza per il futuro, anche solo ideologica, viene posta dagli autori del film l’ambizione sognante, assurda dei ragazzi, che appare surreale nel contesto di quei termini di disagio sociale, trasmettendo un’impressione di  fatalità mediterranea che affligge forse troppo spesso  il mondo che De Sica rappresenta nelle sue opere.

 

 

In questo film l’attenzione di De Sica è per i ragazzi, un tema molto a cuore nel regista che aveva già girato I bambini ci guardano. Successivamente con Ladri di biciclette, De Sica completava alla grande la sua trilogia sui ragazzi-uomo, quelli che per sopravvivere crescevano in fretta perché immersi in un sociale difficile.
Con un budget di poco meno di un milione di lire, il film fu venduto, secondo alcune notizie apparse su internet, per quattromila lire, precisamente  al distributore americano Ilya Lopert, che ci guadagnò poi moltissimo.
Il film comunque si avvicina al  capolavoro, e per questo un grosso merito va a De Sica, sia per quanto riguarda  le idee della parte documentario del film, geniali, precise nel descrivere la realtà di allora, esse sono una parte non secondaria della pellicola, sia per l’impressione di realtà data nelle scene stesse con la sua superba direzione della recitazione degli attori. Cesare Zavattini, geniale e innovativo sceneggiatore, è l’ideatore della parte più discutibile del film, quella che fa entrare in gioco un meccanismo letterario di impronta surreale – fiabesca che riesce si a far volare, leggera, una realtà altrimenti estremamente pesante soprattutto per il suo ricco e aspro contenuto documentaristico, ma che porta lo stile neorealista ad un allontanamento di fondo dalla sua matrice originaria più culturale che è di chiara impronta naturalista, originata dal grande Emile Zola etc. dove l’affabulazione nei libri da lui scritti è praticamente assente.
In tono minore, ma comunque rilevante ha collaborato alla sceneggiatura anche Sergio Amidei.
La presenza di Cesare Zavattini nei migliori film di De Sica ha comunque sempre garantito uno stile narrativo di portata innovativa, seppur a volte surreale, ma sempre originale, di forza universale, sprovincializzando un po’, paradossalmente, i linguaggi chiusi delle diverse zone d’Italia i cui modi espressivi erano pur alla base dei film neorealisti.
E’ per questo forse che i maggiori film neorealisti hanno assunto grazie ad  idee letterarie portatrici in alcuni casi di  messaggi etici universali un successo di critica e di pubblico grandioso, generale, questo via via che si dipanavano alcuni equivoci sulla loro presunta chiusura linguistica di origine sociale e culturale legati allo specifico di un periodo storico. 
Da sottolineare in questo film anche la tecnica delle riprese a pedinamento, mediante la quali i personaggi vengono seguiti nei loro diversi spostamenti mostrando spesso le loro gambe in primo piano.  Inoltre i numerosi e brevi piani sequenza mostrano gli spazi dei luoghi del film  in tutte le  loro  profondità e dimensioni più reali, in modo superlativo, chiaro, da angolazioni diverse molto ricercate, accentuando fotograficamente l’effetto estetico tipico del neorealismo.

Recensione a cura di Giordano Biagio

Sciuscià

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