MANIFESTO 0:
Hai studiato prima all'Actor Studio di NY e poi regia a Los Angeles. Sei d'accordo con chi dice che all'estero si respira un'altra aria? Per quali motivi?
STEFANO CALVAGNA:
All'estero c'è di sicuro molta più meritocrazia rispetto all'ambiente italiano. Quando hai talento, non importa se sei figlio di un regista famoso o di un ristoratore perché non verrai giudicato in base a questo. Non voglio dire che in Italia sia sempre così, abbiamo anche attori e registi bravissimi che hanno il successo che meritano, ma molto spesso invece accade il contrario, e non solo nel mondo della recitazione e del cinema. Anche i metodi d'insegnamento sono molto diversi. Ad esempio, negli Stati Uniti sono più preparati a livello di recitazione cinematografica, perché hanno un background storico diverso dal nostro, mentre da noi è tutto ancora troppo fondato sul metodo teatrale. Nessuno insegna correttamente agli attori come muoversi di fronte ad una macchina da presa. Gli insegnanti hanno grande esperienza e sanno come approcciare ogni allievo, come farlo esprimere al meglio. L'ambiente è molto professionale, pieno di entusiasmo e senza invidia, proprio perché ognuno viene valutato obiettivamente e valorizzato al meglio. Ho solo dovuto darmi il tempo di imparare bene la lingua. Non meno importante il fatto che, oltre alla meritocrazia, negli Stati Uniti esistono contributi delle banche che aiutano i progetti inerenti al cinema, anche se indipendenti. In Italia, purtroppo, i fondi sono riservati sempre alle stesse persone.
MANIFESTO 0:
Molte sono le richieste del pubblico e le problematiche che ha la distribuzione in Italia non sono da
poco, ma esistono persone coraggiose che con ingegno riescono a fuggire e a trovare strade
alternative. Nel 2005 hai fondato la casa cinematografica indipendente Poker Entertainment “che
non si piega alle logistiche del mercato”. Che tipo di difficoltà hai trovato lungo la tua strada di
produttore?
STEFANO CALVAGNA:
Ho sempre dovuto investire denaro personalmente, perché ho sempre lavorato senza fondi
ministeriali e, in rare occasioni, con pochissimi aiuti economici. Ho dovuto trovare collaboratori che
lavorassero col cuore come me ed accanto a me, contro tutte le difficoltà. Con un budget limitato,
ogni azione costa il doppio della fatica ma sono soddisfatto di tutto quello che con le mie sole forze
sono riuscito a costruire, superando tutte le delusioni. Grazie all'entusiasmo che non mi ha mai
abbandonato, ho portato in sala, nonostante tutto, già 19 film.
MANIFESTO 0:
E' vero che “Il lupo”, film che hai diretto nel 2006, è stato il secondo film italiano che ha avuto una distribuzione negli Stati Uniti dopo “Il postino” di Massimo Troisi che risale al 1994?
STEFANO CALVAGNA:
Sì, è vero ed è stata una grande soddisfazione. Come ti dicevo, negli Stati Uniti si tiene conto innanzitutto delle capacità artistiche di un professionista del cinema. Gli americani hanno sempre accolto e premiato le mie opere, mentre il mio Paese ha sempre cercato di oscurarmi un po', dando più importanza ai preconcetti, magari di stampo politico, e al fatto che non ho amicizie o parentele nel campo. Anche in Italia ricevo continui complimenti per i miei film, ma poi mi tengono fuori dalle più grandi manifestazioni pubbliche.
MANIFESTO 0:
Gian Luigi Rondi, critico cinematografico, ti ha definito il “Quentin Tarantino italiano”. Come mai pensi che ti abbia dato questo appellativo?
STEFANO CALVAGNA:
Gian Luigi Rondi mi diede quest'appellativo in occasione del mio film "Senza paura", con il quale nel '99, ho riportato in Italia il genere poliziesco che mancava da anni. In un periodo in cui nel nostro Paese spopolavano le commedie romantiche, le opere Pieraccioni e Muccino, io ho portato in scena una banda di criminali che faceva le rapine armati di taglierino. Era un po' un pulp all'italiana e probabilmente per questo c'è stato un collegamento con Tarantino.
MANIFESTO 0:
Nel 2011 scrivi il libro “cronaca di un assurdo normale” da cui poi hai tratto il film omonimo presentato alla 68a Mostra del Cinema di Venezia, basato sulle tue vicende giudiziarie. Se mi è possibile chiederti, trovarsi in quella situazione per l'appunto assurda, dove dopo che ti hanno ferito sei stato accusato e arrestato e poi per fortuna assolto, ha cambiato la tua visione registica?
STEFANO CALVAGNA:
Ovviamente non ha cambiato soltanto la mia visione registica, ma la mia visione della vita. Ho capito quanta gente falsa ed ipocrita avevo intorno e la cosa si è chiaramente riflessa sul lavoro. Inoltre, la mia situazione giudiziaria è stata travisata e strumentalizzata dai media, che hanno barattato un falso scoop palesando dubbia professionalità con un'etica che andrebbe per onestà intellettuale rispettata. Sono stato ferito fisicamente e nell'animo ed è cambiato tutto dentro ed intorno a me.
MANIFESTO 0:
L'anno scorso è uscito “In Nomine Satan”, di cui abbiamo avuto il piacere di intervistare il regista Emanuele Cerman. La produzione come ha ben sottolineato Emanuele è stata interamente indipendente, ma cosa ti ha spinto a investire su questo giovane e su questa sua cruda storia (tratta da un episodio di cronaca nera italiana) che voleva raccontare?
STEFANO CALVAGNA:
Ho fatto più di un film ispirato a fatti di cronaca, perché credo costituiscano un importante mezzo di denuncia per non gettare gli eventi nel dimenticatoio. Quello legato alle "Bestie di Satana" è stato un evento drammatico e scioccante, che purtroppo ha negativamente segnato nel profondo la storia della cronaca nera italiana. A causa di motivi personali ho dovuto regalare la regia del film (inizialmente scritto da me) e ho scelto Emanuele, mio amico e collaboratore, perché sapevo che avrebbe trattato questo progetto con la giusta sensibilità e la dovuta preparazione, poiché ha studiato a fondo anche il tema dell'esoterismo in tutte le sue forme. Cerman ha messo le mani anche sulla sceneggiatura, rendendola più sua, facendo un film diverso da come l'avrei impostato io. Non è stato un mio sostituto, ma un regista che ha preso un progetto delicato e ne ha fatto la sua opera prima nel modo migliore.
MANIFESTO 0:
E' possibile avere qualche anticipazione sul film "Non escludo il
ritorno" che hai realizzato sul cantante da poco scomparso Franco
Califano?
STEFANO CALVAGNA:
Conoscevo personalmente Franco e questo film è stato scritto da
me, con la collaborazione degli amici più intimi che lui abbia avuto
negli ultimi anni della sua vita.
In scena sono stati utilizzati dall'attore protagonista gli abiti e gli
accessori realmente indossati da Califano, e la scenografia ha
potuto avvalersi di mobili, oggetti ed affetti personali che gli sono
realmente appartenuti (vediamo in alcuni momenti anche il suo
bassotto Birillo), per ricostruire un'ambientazione perfettamente
conforme a quella vissuta dall'artista, qui interpretato da
Gianfranco Butinar. Quest'ultimo è stato scelto perché, oltre ad essere un imitatore di grande talento, ha frequentato per vent'anni il cantautore e ne conosce quindi bene il carattere e le gestualità, in modo da non riportarne una semplice imitazione, ma ricreando il suo reale modo di fare e di porsi. Tutti questi elementi uniti fra loro mi hanno permesso quindi di portare in scena una storia fedele alla realtà dei fatti, in alcuni punti del tutto inedita al grande pubblico. Nel cast sono presenti, fra gli altri, Enzo Salvi, Nadia Rinaldi, Franco Oppini, Danilo Brugia, Andrea De Rosa e la star internazionale Michael Madsen (che ricorderete in "Le Iene" e "Kill Bill" di Tarantino).
MANIFESTO 0:
L'anno scorso hai ricevuto il Leone di San Marco “in qualità di Regista e Produttore della sua Casa Cinematografica è riuscito a produrre e mettere sul mercato nazionale film che evidenziavano aspetti del sociale toccanti avendone poi raggiunto un successo sia dalla stampa che dagli spettatori ed il tutto senza fondi ministeriali, ma auto-finanziandosi tutti i progetti poi realizzati."
STEFANO CALVAGNA:
Il Leone d'Oro alla Carriera è un premio che mi è stato consegnato a novembre dal Comitato Organizzativo del premio Leone d’Oro al Palazzo del Cinema di Venezia. E' un premio che hanno vinto anche Sergio Leone ed Alberto Sordi, sono onorato! Trovo che in molti contesti e kermesse utilizzino dei metri di valutazione esagerati, nel senso che acclamano opere solo perché coperte da grandi major o personalità politiche, sena rispettare poi il gusto di un eventuale pubblico o un'argomentazione ben precisa. I nomi che girano sono in gran parte sempre quelli e spesso ci sono prodotti che a mio avviso non sono assolutamente all'altezza di quel che viene detto di loro, tant'è che finiscono presto nel dimenticatoio. Vorrei sottolineare che al Festival di Roma non hanno preso "Non escludo il ritorno" dichiarando che non avevano uno spazio adatto e poi, invece, vedo che fanno un evento speciale per il film sugli Spandau Ballet che hanno ben poco a che fare con Roma o l'Italia. C'è anche sempre una certa tendenza a tentare di fare gli internazionali a tutti i costi, dando più spazio agli stranieri che non agli italiani. Invece dovremmo fare come negli Stati Uniti, come agli Oscar, dove premiano innanzitutto i meriti dell'industria cinematografica nazionale e poi dedicano un premio ad un film straniero.
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