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Ultimo Tango a Parigi

Produzione: It./Fr. 1972

Genere: Drammatico, erotico
Durata: 136
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Regia: Bernardo Bertolucci

Soggetto: Bernardo Bertolucci

Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Franco Arcalli

Produttore: Alberto Grimaldi

Fotografia: Vittorio Storaro
Scenografia: Ferdinando Scarfiotti

Costumi: -
Trucco: -

Effetti: -

Montaggio: Franco Arcalli, Roberto Perpignani

Musiche: Gato Barbieri

Cast: Marlon Brando (Paul), Maria Schneider (Jeanne), Jean-Pierre Léaud (Tom), Massimo Girotti (Marcel), Laura Betti (miss Blandish)

 

Premi:

 

-

 

 

Trama:

Un uomo, rimasto vedovo della moglie suicida, si aggira per Parigi in preda a una irrefrenabile malinconia,

dovuta, oltre che alla perdita della sua compagna, a un passato confuso e alla perdita della giovinezza.

L'incontro con una giovanissima ragazza borghese e il loro fulmineo rapporto sessuale cambierà la vita di

entrambi. Ma l'uomo sembra imprigionato in una sorta di ossessione erotica, che solo in un primo tempo

è condivisa dalla giovane. Quando scemerà l'interesse della ragazza per quel rapporto senza futuro,

questa ucciderà il suo amante.

 

 

Recensione: 

"Ultimo Tango a Parigi" fa parte, con "Il conformista" e "The dreamers", della nota trilogia filmica su Parigi

del regista Bernardo Bertolucci, tre opere di grande risonanza critica, create da uno dei più talentuosi e

innovativi cineasti italiani degli anni ’60, ‘70. 

"Ultimo tango a Parigi", ha qualcosa nello stile che ricorda vagamente il cinema Veritè e la Nouvelle vague,

il primo nato in Unione sovietica e diffuso in Francia dal sociologo Morin, il secondo sorto in Francia e diffuso in prevalenza da artisti francesi. Questi due modi nuovi di fare cinema, che avranno un rilevante seguito espressivo anche in altre nazioni, presentano la novità di liberare gli autori da ogni convenzione applicativa dei codici visivi di base funzionanti nel cinema fino a quel momento. Essi mettono al centro dell’opera il pensiero confessione del regista che usa la macchina da presa come una libera penna personale. La Nouvelle vague si impone all’attenzione dei critici verso la fine degli anni ’50, il cinema veritè agli inizi degli anni ‘60.

 

 

Questo film di Bernardo Bertolucci prende corpo, come si può dedurre da diverse interviste fatte all’autore, da una fantasia interiore del regista, una sorta di desiderio ispiratore che lo ha spinto ad immaginare cinematograficamente come avrebbe potuto svolgersi una relazione con una attraente donna sconosciuta in un bel palazzo del signorile quartiere Passy di Parigi, senza che, durante la relazione, si venisse a sapere nulla l’uno dell’altro.

Il famoso regista-autore, artista originario di Parma, è stato probabilmente aiutato nella creazione di questo capolavoro da una rara e ammirevole sincerità analitica verso se stesso: perché la sceneggiatura appare assai profonda nelle sue logiche descrittive, pur essendo quasi del tutto fantasmagorica. Una sincerità analitica che si avvale di una forma di inquietudine di origine erotica, a tratti accostabile a forme deliranti, preziosa apportatrice quest’ultima di materiale inconscio.

Sono pulsioni potenti, di grande valenza creativa, perché animate da un voler dire per immagini su ciò che lui stesso non poteva smentire osservando le propaggini figurative del proprio inconscio desiderante. 

 

 

Una confessione di sé al pubblico e alla critica di notevole valenza culturale, velata

da meccanismi letterari fini a se stessi solo per lo stretto necessario, una

confessione che per certi aspetti appare disarmante soprattutto nei confronti dei

critici: espressa com’è in uno stile unitario con il proprio inconscio più vivo che

funge da garanzia di autenticità.

L’autore costruisce una storia d’amore assai credibile e coinvolgente, forse unica

nella storia del cinema per forma e coraggio trasgressivo. Bertolucci riesce ad

andare oltre gli obsoleti codici visivi e sonori del pudore cinematografico allora

vigente: quelli saldamente in mano alle case produttrici più potenti che spesso

per banali loro interessi si ritrovavano in forte accordo con le istituzioni pubbliche

moralmente più severe e rigide: addette al controllo giudiziario dei media. 

Con questo film Bernardo Bertolucci fa una scelta artistica trasgressiva e

provocante molto importante che estende i benefici della cultura cinematografica

a un pubblico più vasto desideroso di identificarsi con personaggi visti da

prospettive analitiche diverse: meno spettacolari ma più vere ed esplosive. Una

scelta che purtroppo risulterà molto dolorosa per Bernardo Bertolucci e altre

persone impegnate nella realizzazione di questo film.

 

 

Dato il contesto storico istituzionale e morale degli inizi degli anni ’70 in Italia, il film non poteva non fare scandalo e andrà infatti incontro a seri problemi giudiziari nonché a pesanti censure; verranno presi come pretesto dell’accusa i contenuti del linguaggio e lo scenario visivo erotico, ritenuti offensivi nei confronti di chi ha sposato i valori dominanti della società compreso la famiglia (vedi la scena del burro eseguita dal protagonista Paul imprecando proprio contro questa istituzione di base della società); modi espressivi e contenuti che ad una più attenta analisi risulteranno in realtà il punto forte del film perché comunicati in tutta la schiettezza che quel tipo di storia d’amore richiedeva per essere trasmessa agli spettatori in una profondità psichicamente più vicina alla sfera primaria inconscia, quella pulsionalmente più attiva della coscienza e del preconscio, vera potenza ignota del quotidiano, enigmatica nel senso, ma attendibile animatrice della pellicola.

 

 

Il modo di esprimersi di Bertolucci in questo film fu perciò del tutto innovativo per la

storia del cinema, altre vicende d’amore simili si sono si espresse nella settima arte

con una certa periodicità, ma con linguaggi molto diversi e farraginosi. Quest’ultimi

risultavano a volte troppo interpretativi del desiderio chiave in gioco o a volte solo

allusivi su una presunta attiva presenza oscura costituita da pulsioni inconsce

anelanti alla scarica, modi mai diretti non mostrati quindi nella loro nudità primaria,

molto lontani quindi dallo stile di questo film di Bertolucci.

Questa carenza storica del cinema si spiega probabilmente con il diffuso timore dei

produttori di una volta, di sconfinare con i propri film nel campo ambiguo della

volgarità istituzionalmente punibile; aspetti questi che hanno sacrificato

pesantemente l’arte cinematografica, inducendo nello spettatore il dubbio di essere

testimone di una conoscenza, intorno alle storie stesse, amputata, soprattutto per quanto riguarda quei frammenti di senso più legati all’inconscio, frammenti che il cinema potrebbe esprimere al meglio grazie alla potenza della sua immagine così efficacemente componibile, così ben configurabile tra musica e parola sonora, cosa che con questo film Bernardo Bertolucci ha dimostrato che si può benissimo fare.

 

 

Il film esce nel 1972 e poco tempo dopo subisce un processo per violazione delle norme etiche sul cinema, Bernardo Bertolucci verrà condannato a 2 mesi di reclusione nonché a 5 anni di perdita dei diritti civili, e lo stesso Marlon Brando, con altri dello staff e della produzione, subiranno pene avvilenti e sdegnose, cosa che fa pensare che i giudici siano rimasti un po’ troppo indifferenti al valore pedagogico, culturale, di questa grande opera artistica, rimanendo freddamente aggrappati ai codici penali in vigore.

L’eco, vasto, di indignazione culturale internazionale di queste condanne sarà però decisivo negli anni successivi per aprire in Italia una nuova stagione di riforme istituzionali nel campo della censura e delle leggi normative sul cinema.

 

 

 

 

 

Recensione a cura di Giordano Biagio

 

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