MANIFESTO 0:
Hai dedicato la tua vita al documentario sollevando tematiche abbastanza importanti ma la situazione del cinema italiano impedisce un vero e proprio mercato di esso. Come ti trovi con questa situazione? E' un ostacolo per te o riesci a cavartela senza farti troppi problemi?
ELISA MEREGHETTI:
Sicuramente è un momento non facile. Il mio percorso, legato a quello di Ethnos, società di produzione indipendente dedicata soprattutto al documentario, è stato improntato alla coerenza e ad un grande amore per questo genere espressivo. Abbiamo sempre privilegiato l'impegno, l'attenzione per il sociale, il voler raccontare storie forti, ma decisamente poco commerciali. Siamo stati tra i primi a lavorare con le ONG, dando il nostro contributo allo sviluppo della comunicazione sociale in questo ambito. É un percorso pieno di storie e di bellissime esperienze, che ci ha permesso di produrre documentari su vicende anche difficili, come la storia di Catherine Phiri, infermiera africana sieropositiva. Naturalmente se in Italia esistesse un vero mercato del documentario le cose sarebbero più semplici, invece noi, come altri, abbiamo dovuto combattere non poco per riuscire a fare questo tipo di lavoro. Il problema principale è ovviamente la latitanza della RAI, il disinteresse per le produzioni indipendenti, la mancanza di regole per un accesso plurale ai mezzi di produzione. A monte di tutto ciò c'è il modello culturale imposto dal berlusconismo che ha plagiato un'intera generazione. Per fortuna questo
modello sta tramontando. Oggi tra i giovani c'è molta voglia di fare, molti si affacciano con
entusiasmo al documentario, un genere quanto mai cruciale in questo momento perché
permette di ragionare sulla realtà, di proporre chiavi di lettura in un mondo in cui è sempre
più difficile orientarsi e crearsi delle opinioni. Assistiamo alla realizzazione di un grande
numero di documentari, spesso autoprodotti, che però nella maggior parte dei casi restano
esperienze isolate. Sono in pochi, a mio parere, quelli che riescono a continuare a lavorare
sul documentario per molti anni. E' un'impresa. E la crisi economica ovviamente ha
aggravato ancora di più le cose.
MANIFESTO 0:
Hai girato il mondo prendendo parte alla lavorazione di documentari e programmi per l'estero. Che differenza hai trovato tra lavorare in Italia e in terra straniera?
ELISA MEREGHETTI:
Ho vissuto negli Stati Uniti per 7 anni, lì ho cominciato a lavorare per la televisione. Negli USA si lavora in modo completamente diverso, il merito e le capacità effettive delle persone sono determinanti. In un certo senso è vero che lì chiunque può riuscire a crearsi la sua strada, se ne ha le capacità. Qui in Italia non è così, purtroppo la mentalità clientelare, la raccomandazione, l'avere un “santo in paradiso” sono ancora molto diffusi. Poi ci sono le pastoie burocratiche, le difficoltà di gestire un'impresa, tutto l'apparato fiscale. Insomma, mi dispiace dirlo, ma a volte rimpiango di essere tornata a vivere in Italia. Mi piacerebbe che questo paese si ricostruisse dalle fondamenta, dalle cose più basilari, dal rispetto, da regole condivise, dai bisogni primari, dai beni comuni. È necessaria una profonda trasformazione culturale. Staremo a vedere...
MANIFESTO 0:
Cosa ti ha spinto a lavorare così tanto nell'associazionismo?
ELISA MEREGHETTI:
Ho partecipato attivamente alla creazione di diverse associazioni, in particolare il
VAG61, uno spazio di comunicazione indipendente di Bologna, dove si produce
informazione “dal basso” e dove si sperimentano modalità comunicative e di relazione
veramente indipendenti. E' stata un'esperienza bellissima. E poi sono tra i soci
fonadatori dell'Associazione DER – Documentaristi Emilia-Romagna, la prima
associazione di documentaristi su base regionale, che promuove la cultura del
documentario e la sua diffusione. Credo che l'associazionismo sia una pratica vitale,
un ambito in cui possono nascere progetti determinanti per la collettività.
MANIFESTO 0:
Hai un progetto in corso o stai pianificando qualche nuovo lavoro?
ELISA MEREGHETTI:
Si, ho diversi progetti in corso. Recentemente abbiamo lavorato alla produzione di “Progetto Kafka”, una trilogia a cavallo tra fiction e docufiction diretta da uno dei padri del documentario italiano, Luigi Di Gianni. Un progetto complesso ma molto interessante. Ma il progetto più impegnativo è quello di un documentario che ci riporta in Africa, un po' la terra delle origini se vogliamo, dove si possono raccontare storie molto forti e significative. La storia su cui stiamo lavorando è quella di una giovane giornalista ugandese, che attraversa il suo paese interrogandosi sul percorso di pace e riconciliazione dopo una guerra civile durata 23 anni. Come si rialza in piedi una comunità che è stata ferita così duramente? Dove trova le energie per ricominciare, per ricostruire la pace? Che ruolo hanno le donne in questo processo? Queste sono alcune delle domande di fondo del documentario, che contiamo di completare entro l'anno.
MANIFESTO 0:
Prima hai parlato di rivoluzione. Alcuni mesi fa si lottava per rendere Cinecittà Bene comune. Pensi che passando a una gestione pubblica e non più privata la situazione possa migliorare?
ELISA MEREGHETTI:
Cinecittà è un patrimonio di tutti, così come lo sono tante altre istituzioni culturali in tutta Italia, perché è la cultura stessa che appartiene alla collettività, che deve appartenere alla collettività. Invece si tende a svendere queste istituzioni, si tende sempre più ad affidarle ai privati, a renderle patrimonio gestito e controllato da pochi. È una tendenza che va contrastata in tutti i modi, è una battaglia difficilissima ma decisiva, che va di pari passo con quella rivoluzione culturale profonda a cui accennavo prima. Può sembrare un percorso quasi impossibile, ma in fondo abbiamo alle spalle un grande successo, la vittoria del referendum sull'acqua. Un passo decisivo verso una nuova direzione, la cui importanza forse non è stata ancora compresa fino in fondo.
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