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Produzione: It. 1964

Genere: giallo/thriller
Durata: 84 min

Regia: Mario Bava

Soggetto: Marcello Fondato

Sceneggiatura: Marcello Fondato, Giuseppe Barilla, Mario Bava

Fotografia: Ubaldo Terzano

Costumi: Tina Grani

Scenografie: -

Trucco: -

Effetti Speciali: -

Montaggio: Mario Serandrei

Musiche: Carlo Rustichelli

Cast: Cameron Mitchell, Eva Bartok, Thomas Reiner, Dante Di Paolo, Franco Ressel, Luciano Pigozzi



SEI DONNE PER L'ASSASSINO

Premi:

-

 

 

Trama:

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Recensione:

Il film inizia con una scena notturna molto suggestiva, ambientata durante un temporale, in primo

piano una villa con la fontana e una targa staccata da un lato che oscilla, quest’ultima porta  incisa a

grandi lettere la scritta Christian - Alto cucito. Il movimento rumoroso della targa fa pensare, come per

metafora, a dei guai in arrivo per i presenti nel lussuoso fabbricato.

Massimo Morlacchi (Cameron Mitchell) e la contessa, vedova, Cristiana Cuomo  (Eva Bartok) gestiscono

un atelier di lusso in quella villa, situata in un quartiere bene di Roma,  l’uno ne è il Direttore

amministrativo e l’altra  la proprietaria. Una sera una loro modella, Isabella (Francesca Ungaro), dedita

con l’amante antiquario Franco Scalo (Dante Di Paolo) ai piaceri della droga (cocaina), viene uccisa da

un uomo che la soffoca con le proprie mani, l’assassino ha un impermeabile scuro e il viso coperto da

un tessuto a maglie fitte; il delitto avviene nei pressi dell’atelier durante un black out elettrico,

nell’antistante zona buia alberata,  dove la donna era giunta con un taxi e si apprestava a sfilare nella

passerella di moda. Il cadavere viene nascosto in un vano  dell’atelier e viene poi scoperto, la sera stessa, dalla contessa Cristiana.
Avvisata la polizia, sul posto arriva l'ispettore Silvestri (Thomas Reiner) che interroga subito i presenti. Scopre così l’identità dell’amante di Isabella: Franco Scalo. Poco dopo, prima della sfilata, un'altra modella, trova per caso il diario di Isabella, che contiene rivelazioni compromettenti per tutti: relazioni d’amore segrete tra colleghi, debiti non pagati, modelle rimaste incinta dall’amante che non possono permettersi l’aborto, propositi omicidi di qualcuno, etc.; questa modella è Nicole (Arianna Gorini)), amica di Isabella.
Nicole prende con sé  il diario promettendo a Cristiana di consegnarlo alla polizia, ma in realtà prende tempo e telefona all’amante antiquario Franco, spiegandogli la pericolosità delle annotazioni in esso contenute che possono mettere a rischio anche la loro reputazione, la donna gli fa presente quindi che è intenzionata a consegnarglielo. Ma una telefonata dell'assassino, che si finge Franco Scalo, l’amante della donna, induce Nicole a recarsi subito nell'abitazione dell'antiquario dove viene uccisa con un guanto chiodato dopo lunghe e drammatiche scene di inseguimento. In precedenza  il diario era stato trafugato da Peggy (Mary Arden), un'altra modella,  dalla borsa di Nicole.
L'ispettore venuto a conoscenza del nuovo omicidio convoca al commissariato l'intera cerchia dell'atelier: l’antiquario Scalo, il marchese Morelli (Franco Ressel), Marco il disegnatore stilista, Massimo Morlacchi e Cesare Lazzarini (Luciano Pigozzi) uno dei  figurinisti. Convinto di essere sulla strada giusta Silvestri decide di trattenere tutti al commissariato.


 

Il film uscito nel 1964, è un giallo-thriller, con qua e là qualche colorazione di horror, un genere misto di indubbia efficacia: del tutto frutto di una potente fantasia, che conferma come storicamente, negli anni ’60, ci sia stata una crescita elaborativa di sicuro valore del cinema italiano rispetto ai vecchi schemi che caratterizzavano in modo troppo univoco un genere, forse perché occorreva rimanere fedeli a ciò che garantiva un certo successo collaudato, pena un rischioso salto nel buio per i produttori. Con questo film Bava compie un esperimento ben delineato anche rispetto alle attese del gusto degli spettatori nuovi, soprattutto giovani, un lavoro del tutto riuscito che lo porterà alla ribalta nel cinema italiano ed occidentale per diverso tempo.
La narrazione di SEI DONNE PER L'ASSASSINO è originale, seppur a volte un po’ eccentrica e stravagante: Bava sembra quasi che voglia in certi casi aggiungere a tutti costi forme di  emozioni visive part time cioè un po’ slegate dal contesto più strutturale dell’opera. Il racconto è comunque ricco di invenzioni sceniche apprezzabili, tali da farne  per gli studiosi un’opera filmica complessa, ben esposta, chiara nelle rappresentazioni delle maggiori logiche che ruotano intorno al concetto di male proposto. Le maggiori articolazioni sceniche tentate da Bava sembrano in parte la riproduzione geniale, fedele di alcuni processi inconsci che sottostanno ai sintomo un po’ più manifesto quello che porta all’azione omicida; ciò nonostante alcuni punti intermedi della narrazione siano un  po’ statici, di semplice scorrimento del tempo come accade in numerosi film di azione thriller-horror.
Una pellicola dunque che si può considerare senz’altro d’autore, firmata, con scene ben studiate fotograficamente che tengono conto dei desideri e della struttura più istintuale dello spettatore: cullata e portata a soddisfacimento in modo egregio senza preannunci tra le righe o telefonate traditrici; un’opera anche densa di questioni cliniche psicanalitiche ben delineate.
Nuovi, e molto più paurosi appaiono alcuni modi di uccidere, ad esempio è interessante nel secondo omicidio  il gioco di luci con cui è stata costruita la scena, che mai  appare come qualcosa che dia la sensazione di una ripetizione, di qualcosa di già visto: l’assassino  dopo essere entrato nella casa della vittima ed aver staccato la corrente rincorre a lungo la donna, tra i bagliori esterni delle auto che gettano un’ombra ancora più sinistra sulla sua figura creando un contrasto luci ombre dagli effetti fantasmagorici potenti: che tanto piace al pubblico.


 

Notevole poi per la durata delle tensioni, il prolungarsi sadico della scena dell’omicidio, con a sostegno di essa l’occhio della macchina da presa che ricerca da angolazioni suggestive particolari raccapriccianti e macabri, che ingranditi colpiscono i sensi come una grossa frustra.
L’intreccio narrativo poi, è congeniato in modo che difficilmente lascia indovinare al pubblico l’autore degli assassinii, perché i personaggi che entrano in scena sono numerosi e molto attivi nella parola e nelle azioni, tanto che diventa difficile seguire con attenzione massima i particolari significativi dei loro comportamenti e discorsi.
Mario Bava come tutti i registi italiani di quel periodo, operanti sui generi filmici più disparati, conferma la grande capacità del cinema italiano nel saper esprimere qualità filmiche da autore; infatti anche nei prodotti più seriali come questo (il film viene dopo altre pellicole di Bava come LA RAGAZZA CHE SAPEVA TROPPO del 1963, I TRE VOLTI DELLA PAURA del 1963, LA FRUSTA E IL CORPO del 1963) predomina su tutto lo stile originale. 
Mai in Italia, in quel periodo, un film che fungeva da modello, per le sue  riuscite invenzioni stilistiche, diventava per un successivo regista una sorta di fotocopia; in ogni narrazione filmica, che omaggiava in qualche modo dei registi maestri, ci sono stati soprattutto innesti di codici visivi nuovi, vasti meccanismi letterari innovativi, intrecci molto diversi sia dalla consuetudine più brillante sia da quella vantaggiosa economicamente.
Ad esempio Dario Argento nei suoi film, successivi a questo, prenderà alcuni spunti visivi da tutte le opere filmiche di Bava, come i particolari sadici dell’omicidio che diventava  con Bava una sorta di rituale morboso dall’esito agghiacciante proprio per via di tutta la prolungata articolazione del sintomo omicida profusa dall’assassino fino alla morte della vittima; oppure sempre da Bava il vestiario impressionante dell’assassino  quale l’impermeabile scuro, i guanti, la voce dai suoni stranianti e dal tono maniacale, etc., ma nonostante ciò le creatività visive e narrative di Dario Argento saranno talmente geniali, corpose, visivamente efficaci, con ad esempio l’invenzione di una musica dal ritmo impressionante che fungeva non più da contorno della scena dell’omicidio ma diventava essa stessa elemento protagonista nella costruzione della paura, che i suoi film rimanevano sempre prodotti doc.
Il lavoro di Dario Argento si innestava positivamente, a largo raggio, in quelle parti stilistiche del film simili ai modelli  proposti da Mario Bava, tanto da rilasciare un’idea di progresso, tutto italiano, nella edificazione di un sistema giallo-thriller-horror: qualcosa di strutturalmente sempre più efficace, di emotivamente superiore, una sorta di evoluzione qualitativa generale del nostro cinema.









Recensione di Giordano Biagio

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