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LA PRIMA GUERRA MONDIALE E L'UCI

La seconda crisi del cinema italiano si sviluppò durante e dopo la prima guerra mondiale. Molti pensano che uno dei motivi della crisi fu proprio la guerra, in realtà è colpa del cinema stesso che non fu capace di rinnovarsi, non evolvendo il proprio linguaggio perché troppo sicuro del prestigio internazionale ottenuto nell'anteguerra.

 

Con i kolossal (specialmente quelli diretti da Giulio Antamoro) alcuni generi tramontarono come il filone storico o quello comico, mentre si continuarono a produrre pellicole che contenevano passioni fatali come quelle di Roberto Roberti.

 

I documentari furono solo apparentemente girati in presa diretta: lo Stato (il Ministro della Marina, quello dell'Esercito e quello della guerra) finanziò una serie di film di guerra come LA GUERRA E IL SOGNO DI MOMI  (Giovanni Pastrone, 1917) che sospeso tra sogno e realtà fu il primo film a usare la tecnica dello stop-motion o LA PAURA DEGLI AEREOMOBILI NEMICI (Andrè Deed, 1915). 

 

Nel 1918 accadde un fenomeno che vide i fattori della dinamica esterna (la nascita di nuove case di produzione, i contratti dei divi che salivano a cifre astronomiche, il numero dei film prodotti che cresceva) non corrispondenti a quelli della dinamica interna (a livello linguistico ed espressivo) e questo, insieme al vivere di rendita adottato, portò piano piano ad un calo delle esportazioni. L'unico modo per salvarsi sembrò quello di coordinare tutte le case di produzione: nacque così un progetto di monopolio produttivo chiamato UCI. In questo modo sarebbe la produzione sarebbe stata controllata evitando sprechi e sbagli, il problema però fu la mancanza di coordinamento: l'UCI era mal gestita e quindi morì dopo poco. Inoltre il nuovo organo non seppe studiare il gusto del pubblico nazionale ed estero e quindi i film risultarono scadenti. Cercando di imitare le major statunitensi, utilizzando i grandi investimenti che poi non sarebbero stati coperti e importando le pellicole vergini, si aumentò lo spreco di denaro in fase di produzione. La concorrenza straniera nel frattempo aumentava e il rinnovamento delle manifatture continuava a mancare.

 

L'unica furbizia fu la vendita dei film a "scatola chiusa", pellicole che venivano vendute agli stranieri, in particolare a George Kleine, già prima di essere visionate da questi. All'inizio l'affare funzionò, peccato che con il passare del tempo, i prodotti venduti furono sempre più poveri e con l'arrivo della guerra, il cinema italiano subì un ulteriore calo sia a livello internazionale con la distribuzione, a cui fa eccezione il contatto con la Spagna, sia a livello nazionale che portò alla chiusura di molte importanti case di produzione. Poi arrivò il 1926 quando Stefano Pittaluga assorbendo l'UCI si mise a capo del Rinascimento cinematografico italiano.

Redazione

Manifesto 0, 2012

 

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