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Bellocchio: storie e gesti di una ribellione

“La mia immaginazione mi spinge a forme di ribellioni diverse che a lungo tempo sono anche cambiate, un anarchismo che non è più così violento come nei miei primi film, ma rimane l'opposizione, la non accettazione delle forme di un potere dispotico”.

Marco Bellocchio, classe 1939, un regista dallo spirito rivoluzionario, un autore che non ha mai perso di vista la priorità di raccontare storie che attraversano gli aspetti più complicati e interiori della società in cui ha vissuto e vive.

 

I caratteri psicologici, la religione, i rapporti familiari non sempre facili, sono temi cari al regista che affronta spesso, in maniera diversa, nei suoi film. “Il mio rifiuto per la religione, per l'educazione religiosa subita emerge in quello che immagino nei miei film. Anche i rapporti familiari sono un aspetto legato alla mia vita, avendo vissuto fino all'adolescenza in una famiglia molto italiana, numerosa, complicata.

La differenza rispetto a quando ho incominciato è che mentre in passato avevo bisogno di storie che in parte rispecchiassero la mia vita personale, adesso invece il legame è apparentemente lontano, anche se cerco sempre qualcosa su cui poter reinterpretare e personalizzare.”

E' il caso, per esempio, di FAI BEI SOGNI, tratto dal romanzo autobiografico di Massimo Gramellini. L'elemento comune trovato è la morte della madre e il disastro che produce, esatto contrario dell'esperienza di Bellocchio. “Mia madre è morta quando ero già un uomo, anche se il mio legame con lei in giovinezza è stato quasi assente. Cercavo un rapporto di affetto, di amore, ma che non ho avuto, non perché lei fosse cattiva, ma per ragioni di condizione materiale. La nostra famiglia era numerosa e c'era questa sua incapacità di occuparsi affettivamente dei suoi figli. Nel libro di Gramellini la perdita della madre mi ha colpito e ho sentito che potevo rappresentarla.”

 

FAI BEI SOGNI è uscito nelle sale il 10 novembre 2016 ed è l'ultimo film che il regista ha girato, ma il suo percorso cinematografico inizia nel lontano 1959, quando Bellocchio entra al Centro Sperimentale di Cinematografia. “Frequentavo il CSC, a cavallo tra gli anni '50 e '60, e vi era un'Italia molto diversa da oggi. Venivo dalla provincia e arrivare nella capitale fu un'esperienza significativa: cambiarono i rapporti, il mio modo di vivere, stavo fuori casa. Se pur il corpo docente per me spesso era insoddisfacente, l'esperienza di scoprire il cinema è stata importante, nel particolare imparare la tecnica che oggi si è democratizzata, ma allora era qualcosa di pesante, di meccanico, c'erano le moviole, le macchine da presa, bisognava imparare la logica. Poi vi furono le esperienze umane: c'erano studenti da tutto il mondo e quindi ebbi l'occasione di avvicinarmi a cinematografie lontane, ricordo che mi attaccai ad alcuni registi brasiliani.

Il CSC è stato un passaggio fondamentale per la mia vita e per il mio cinema. Lì, ci fu per me l'opportunità di approfondire il cinema muto, che già conoscevo e ammiravo. Io nasco come pittore, ma al Centro ho trovato il mio modo di esprimermi.”

 

Bellocchio infatti lascia la pittura senza però mai dimenticare quell'esperienza di quando era adolescente che gli ha fatto capire la priorità dell'immagine rispetto alla parola. “I gesti mi attraggono, quando sostituiscono le parole” confessa il regista e forse sarà per questo motivo che in molti suoi film si ritrova un gesto in particolare, quello dello schiaffo. “Sono reazioni diverse tra loro: NEL NOME DEL PADRE è una lotta piuttosto violenta tra il genitore e il figlio, c'è una ribellione, uno scontro dove nessuno dei due vuole soccombere; NEI PUGNI IN TASCA il fratello maggiore lo dà alla sorella e viceversa, ma sono reazioni che cambiano a seconda dei personaggi. In particolare in questo film c'è una gestualità simbolica: il protagonista con dei gesti astratti è come se rappresentasse la propria certezza su quello che vuole fare, una sicurezza che alla fine poi non ha.”

 

Azioni metaforiche che esprimono la psicologia e i sentimenti dei personaggi che spesso trovano nella filmografia di Bellocchio un punto in comune: quello della ribellione.

Il '68 fu un anno significativo che ha riguardato molte novità nel costume, nei rapporti personali, nella politica: “Al tempo vi era l'idea che potesse avvenire una svolta, per qualcuno radicale, ma fuori da ogni violenza. Per un breve periodo sono stato sensibile a istanze rivoluzionare: allora c'era un partito comunista molto forte di tipo revisionista o altri partiti rivoluzionari che facevano riferimento alle teorie leniniste o al maoismo che aveva degli slogan affascinanti come servire il popolo. Il popolo che lavorava aveva una sapienza che la classe borghese non aveva, bisognava andare a scuola del popolo per imparare, scoprire una cultura diversa rispetto a quella classica. Poi, ho capito che non potevo rinunciare alla mia formazione culturale, anche perché quei movimenti come sono esplosi sono anche implosi: non avevano un rapporto concreto e profondo con la società italiana, tanti giovani hanno subito danni irreversibili, alcuni sono finiti nella lotta armata, per me invece è stata una stagione molto breve.”

 

Una stagione che nella filmografia di Bellocchio riecheggia preponderante nel primo periodo, anche se al sentimento di ribellione il regista bobbiese non ha mai rinunciato, inserendolo col passare negli anni in maniera più cauta, senza mai abbandonare quell'acutezza critica che è sempre stata un segno indistinto del suo stile.

 

 

 

 

 

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Von Chanelly

Manifesto 0, 23 novembre 2016

 

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